Le prime luci e i primi rumori di Ostia mi fecero svegliare.
Mi ero addormentato sulla sabbia dopo ore e ore di cammino, avanti e indietro,
nel buio ed ero convinto che ormai Assuntina fosse morta in un incidente
e che per me fosse finita quella storia, già nata senza speranza.
Che altro poteva essere successo? Assuntina non era il tipo che ti lascia
ad aspettare due ore per ragioni futili. Ma se la vita voleva darmi un'altra
mazzata, non c'era proprio bisogno di una conclusione così: Assuntina
no, ma io mi sentivo all'inferno già dalla nascita, abbandonato
in un orfanotrofio confinante con una fortezza militare destinata ai soldati
condannati, e poi costretto ad andare su e giù per spiagge sempre
più sporche, piene di gente, imprigionate negli stabilimenti a pagamento
e col mare sempre più puzzolente. L'illusione della libertà
e della quiete che subentra sulle spiagge dopo le prime mareggiate autunnali
dura ogni anno sempre meno. E ogni anno stiamo qui, all'inferno, ad aspettare
chissà quali nuovi sconvolgimenti.
Mi sentivo stordito. Avevo la bocca amara. Il posto dove avevo dormito era vicino a un nuovo stabilimento in costruzione. Un muratore stava già cominciando a lavorarci, a quell'ora. Dovevano essere le cinque o le sei. Mi alzai. Ero già vestito e avevo le bretelle del mio sacco strette in mano. In pochi passi raggiunsi la strada con un largo marciapiede ingombro di mucchi di sabbia, sacchi di cemento e pali della luce stesi in terra. Si vedeva che stavano lavorando anche lì. Le palazzine che vidi lungo la strada non avevano un bell'aspetto: sembravano vecchie e cadenti, disabitate, alcune mangiate dalla salsedine. Mi diressi verso sud, avendo il mare alla mia destra, e raggiunsi un grande piazzale con tre palme al centro. C'era un lungo pontile che sporgeva nel mare. In fondo al pontile un pescatore stava armeggiando con la sua canna e le sue esche. Sulla strada larga che partiva dal piazzale, perpendicolare alla litorale, un bar era già aperto. Ma io non avevo né fame né sete. Cercavo una cabina telefonica da utilizzare al più presto. Non ne vedevo, perciò mi inoltrai verso la parte interna di Ostia. Sotto al palazzo delle poste trovai finalmente una cabina. Feci il numero di Assuntina che, dopo due squilli, rispose con voce assonnata. "Assuntina, Assuntina" ripetei sentendomi quasi svenire dall'emozione "Assuntina, finalmente! Io ti davo per morta...". "Antò" disse Assuntina con voce ferma e sveglia "Dove sei?". "Amore mio, sto qui, a Ostia, sotto al palazzo delle poste. Ma che è successo?". "Se sapessi, Antò, poi ti racconto. E' finita la benzina a metà strada e non c'era un cane di benzinaio aperto. Ma tu, tu, tu, perché non hai un cellulare? Sei l'unico al mondo che non ce l'ha! Qui ce l'hanno tutti i bambini!...". Crack. La voce di assuntina svanì di colpo. E tu, tu, tu, tu... La comunicazione s'era interrotta. Provai a sfilare e a reinfilare la schedina e a rifare il numero. Ma niente da fare. Non funzionava più. Capii che dovevo comprarne un'altra. Mi guardai intorno, ma i negozi erano ancora tutti chiusi. Tornai al bar che avevo visto aperto. Mi sentivo ancora preoccupatissimo, ma finalmente avevo di nuovo fame e sete e dovevo andare al bagno. Lo dissi al barista, che mi diede la chiave, perché il bagno era ancora chiuso. Dopo aver soddisfatto i miei bisogni impellenti, usai anche il lavandino, il sapone e la carta per asciugarmi. Avrei voluto radermi la barba che, in quattro giorni, era cresciuta di almeno un centimetro. Così mi sembrava, guardandomi allo specchio. Avevo un aspetto spaventoso, ma non privo di fascino. Sapevo che ad Assuntina piacevo anche con la barba. Mi ricordavo che certe mattine, l'anno precedente, ci incontravamo dopo una mattinata che avevo passato a trascinare il sacco delle telline, e lei non si schifava ad abbracciarmi e a sdraiarsi vicino a me sulla spiaggia al sole... Ormai la tensione era caduta. Bevvi due bicchieri d'acqua, poi mangiai due cornetti e sorseggiai un cappuccino. Chiesi al barista dove avrei potuto comprare una schedina per il telefono. "Sei fortunato" disse il barista "Qui in giro solo io le vendo ancora. Ormai gli italiani hanno tutti il cellulare, ma gli stranieri - e qui ce ne sono tanti - le usano ancora". Ne gettò una da 10 euro sul bancone. Chiesi se non ne avesse una di prezzo minore. No. Controllai le monete metalliche, ma non potevano bastare. Andai a sedermi ad un tavolino, aprii il sacco, srotolai una delle due buste di soldi senza estrarla dal sacco e, finalmente presi i dieci euro. Richiusi bene il sacco e diedi al barista la banconota più tre euro per la colazione. Presi la schedina e tornai alla cabina. "Antò" disse Assuntina "T'è finita la scheda telefonica, eh? Ne hai comprata un'altra, eh? Ma quanto ci hai messo. Senti, adesso tu devi andare alla stazione di Ostia. Chiedi dov'è. Quando stai lì, aspettami vicino al giornalaio. Io arrivo col trenino. Ma adesso posso anche parlarti un po', tanto hai la schedina carica. Quanto l'hai pagata, dieci euro?". "Sì". "Ah, ecco, allora ti accenno com'è andata. Poi ti racconto meglio quando ci incontriamo. Sulla Cristoforo Colombo non eravamo arrivate nemmeno a Casal Palocco quando la macchina si è fermata. Abbiamo chiuso le porte della macchina e siamo andate, io e Marisa, a cercare un benzinaio, pensando di trovarlo a Casal Palocco. Cammina, cammina, ne abbiamo incontrati due chiusi e, alla fine, dopo mezz'ora, abbiamo deciso di tornare indietro. Intanto Marisa ha telefonato a Floriana, la figlia del professore che abita al palazzo di fronte al mio. Poi ti racconto. Aspetta, aspetta e Floriana non arrivava. E che era successo? Non rispondeva nemmeno al telefonino. Sarà passata almeno un'ora. Poi ti racconto. Stavamo sedute sul cofano della macchina, sotto il sole, tutte sudate, quando, finalmente, arriva una telefonata a Marisa. Era Floriana. La macchina le si era fermata all'Eur. L'acqua del radiatore era andata in ebollizione ed era uscita tutta. Aveva dimenticato il telefonino a casa e perciò aveva dovuto tornare a casa con l'autobus. E di domenica di autobus ne passano pochi. Poi ti racconto. Non sapevamo più che fare. Io ero disperata. Sapevo che tu più di mezz'ora non potevi stare fermo ad aspettare...". "Invece ho aspettato almeno due ore" protestai. "A quel punto che fai? Abbiamo lasciato la macchina lì e ci siamo incamminate verso Roma. Sulla Cristoforo Colombo, a quell'ora, il traffico c'è anche di domenica, ma non volevamo fermare nessuno. Chi si fida? Vedendoci camminare sulla stradina laterale, qualcuno ogni tanto si fermava e ci offriva un passaggio, ma noi rifiutavamo. No, grazie. Tu non sai quanti malintenzionati girano in macchina per Roma e dintorni. Poi ti racconto. Avremo camminato per tre o quattro ore, salendo sul marciapiede appena lo trovavamo, se no camminando in fila indiana sul bordo della strada. Erano le undici e mezza quando arrivammo all'Eur. Salimmo sul primo autobus che incontrammo, fermo al capolinea. Il conducente non c'era e arrivò dopo almeno mezz'ora. Gli domandammo, stizzite, perché non era arrivato prima. Ci disse che ormai quello era il turno di notte: una corsa ogni ora. L'autobus fa un giro lunghissimo. Alla Piramide si fermò e non poté più ripartire. Faceva un rumore cane, come un carrarmato. Il conducente spense il motore e disse che c'era un guasto. Di là abbiamo dovuto camminare per un'altra mezz'ora per arrivare a casa. Era l'una di notte quando siamo arrivate". Verso le nove e un quarto Assuntina scese dal treno e andò subito dal giornalaio dove Antonio l'aspettava. Si abbracciarono, si baciarono e salirono sul treno per Roma. Alla stazione di Tor di Valle, la linea ebbe un guasto. Dopo mezz'ora il capotreno passò ad aprire le porte una per una, a mano, e i passeggeri furono mandati via. Antonio e Assuntina proseguirono per un tratto a piedi, fino all'Eur, e presero lo stesso autobus che Assuntina e Marisa avevano preso quella notte. Poco prima di arrivare a Tor Marancia l'autobus ebbe un guasto, e i due proseguirono a piedi. |