Mi chiamo Antonio Baldascione, ho cinquant'anni
suonati, un bel paio di baffi neri e sono nato a Catanzaro, ma da che mi
ricordo vivo a Gaeta. Anzi, vivevo a Gaeta fino a cinque giorni fa. Ora
non so bene dove sono. E' notte. Sono in riva al mare, aspetto l'alba e
continuo a camminare.
Che è successo cinque giorni fa? Un momento, voglio
rispondere prima a un'altra domanda: che ci facevo a Gaeta e come vivevo?
Pescavo cozze, telline e vongole e, ogni tanto, qualche
polpo, quand'era stagione. Con ami, lenze e rezze non mi ci trovo. Stare
ad aspettare sopra gli scogli, lo posso fare un po' con i polpi, ma non
con i pesci, che non s'allamano mai. A me piace camminare di qua e di là,
sulla rena e anche sopra gli scogli se sono lisci. Le telline e le vongole
sono faticose. Si deve andare all'alba, affondare il retino nella rena
e tirare finché il sacco del retino si riempie di molluschi. Per
le cozze bisogna tuffarsi dove crescono e strapparle dagli scogli, ma sono
sempre più rare.
In paese mi conoscono tutti. I frutti di mare e i polpi
li ho portati sempre a don Pasquale che, in cambio, mi fa mangiare ogni
giorno. Di mia madre e mio padre non so niente, e nessuno ne sa niente
in paese. All'anagrafe c'è scritto solo che sono nato a Catanzaro
il 7 luglio del 1954.
Abito nel vicolo della Marina al numero 9, un bel locale
ampio che i signori Loffredi mi affittano gratis. Abbiamo fatto tanto di
contratto, non so perché, con una pigione mensile pattuita, che
poi siamo d'accordo che non devo pagare. Non c'è vista sul mare
e neppure sulla terra, ma, quando apro la porta, entra una luce accecante,
perché il sole entra nel vicolo a mezzogiorno e se ne va alle due,
ma, nelle altre ore del giorno la luce va dove vuole, sbattendo qua e là
sulle facciate chiare, e l'aria è profumata di limoni. Per grazia
di Dio, nel vicolo le macchine non possono entrare, neppure volendo: ci
sono le scale! E che giardini, che fiori! E, quand'è la stagione
dei turisti, che belle ragazze passano di qua! E qualcuna si ferma pure
a parlare con me, e vuole sapere la mia storia, e allora qualcosa mi devo
inventare: posso mai dirgli che sono senza né padre né madre
e senza fissa dimora?...
Senza fissa dimora forse no, perché sono molti
anni che abito in questo posto. Quanti anni, non mi ricordo più.
Ma ci si deve vergognare di queste condizioni, anche
se ce ne sono altri come me da queste parti: c'è Enzo, Vannuccio,
Poldino, tutti e' tre pescatori come me; Antonio Lovascio, invece, fa il
mondezzaio, e Robertino fa il guardaportone al Comune.
Cinque giorni fa incontro Michele Abbutino, ex carabiniere
in pensione, che, come fa sempre, mi fa: "Nè, Antò, ancora
qua stai? Ma quand'è che ti trovi un lavoro dignitoso e te ne vai?".
"Ma perché, vi dò fastidio?" faccio io.
" E già, tu non hai nemmeno la quinta elementare!
Dove vuoi andare?".
"Ma che andate dicendo? Io non solo ho fatto le elementari,
ma anche le scuole medie. Me lo ricordo bene!".
"E meno male! Mo' hai fatto le scuole medie! E dove sta
scritto?".
E se ne scende muro muro fino al porto, come fa tutti
i giorni.
Dio, com'è scocciante questo Abbutino. Gli darei
una spinta e lo farei rotolare per tutte le scale.
"Antò, che fai? Oggi non porti niente a don Pasquale?"
mi grida la signora Rosina dal balcone. E' tardi, sono già le nove.
Ormai non pesco più niente. "Vado, vado" rispondo e comincio a scendere.
Quella mattina mi ero svegliato tardi e male. Avevo fatto
un brutto sogno. Se mi alzavo prima andavo a pescare qualche vongola, e
il maresciallo Abbutino non lo incontravo. La signora Rosina, in fondo,
mi vuole bene. Due giorni prima mi aveva dato un materasso nuovo nuovo
che profumava di lavanda: ci aveva dormito lei per cinque o sei anni. Leggera
com'è non lo aveva consumato. E quello vecchio lo avevamo subito
bruciato, di notte, sulla piazzetta, davanti al campanile del duomo.
Quando arrivai alla piazza coi giardini sul porto, subito
mi vide Angelino, quello della capannina, che vende gelati, granite e limonate.
"Antò" gridò con la sua voce squillante
"se prendi le cozze portamele. M'è venuta voglia. Me le voglio fare
stasera".
"E' tardi, Angelì. Mi sono alzato tardi. Ormai
i turisti stanno dappertutto".
Andai subito da don Pasquale a salutarlo. Il suo ristorante,
molto apprezzato da turisti e locali, sta lì vicino, a due passi,
in un vicolo, sotto da una bella pergola messa apposta per rinfrescare
quelli che vengono a mangiare.
"Nè Antò, sei già qui?" mi fa don
Pasquale.
"Vi chiedo scusa, don Pasquà, ma oggi mi sono
alzato tardi".
"E che è? La sveglia che ti ho dato l'anno scorso
non funziona più?".
"Don Pasquà, la sveglia è un pezzo che
non la metto più, perché la notte normalmente mi sveglio
molto prima dell'alba. Ma stamattina, non so perché, non mi sono
svegliato. Forse sono un poco malato. Vallo a sapere".
Don Pasquale ha sessant'anni e una bella pancia sotto
al grembiule bianco. E' come un padre per me. Mi mise una mano sulla spalla
e, guardandomi negli occhi, mi disse: "Veramente mi sembri un poco stanco,
come se non avessi dormito bene". Poi, spingendomi a sedere sulla sedia
di paglia sotto la pergola, mi fece una rapida visita, perché lui
è anche un po' dottore. Mi abbassò una palpebra sotto l'occhio
per vedere la parte inferiore della palla e poi mi tastò la vena
del polso con le quattro dita.
"Antò" poi disse "l'occhio è bianco. Lo
sai. L'uomo è come il pesce. Se l'occhio è vivo il pesce
è fresco, se sotto l'occhio la palla è bianca l'uomo sta
bene. Se c'è un poco di giallo, può avere qualche disturbo
epatico o può solo aver fatto indigestione. Ma tu non hai dormito
bene. Hai le occhiaie".
"Don Pasquà, e come posso fare indigestione, con
quello che voi mi date da mangiare. Tutti qui sanno che tutto quello che
voi date da mangiare è genuino. E anche le cozze o le vongole che
vi porto io sono appena uscite dall'acqua più pulita di Gaeta".
"Terè" gridò verso la sala buia "porta
una limonata a Antonio".
Poi, rivolto a me: "Ti sto dicendo che hai fatto indigestione?
T'ho detto che hai l'occhio bianco! Io dico solo che non hai dormito, stanotte".
"E se non avevo dormito, come facevo a svegliarmi tardi?...
Va bene, don Pasquale, avete ragione: non ho dormito bene, e con quel poco
che ho dormito, ho fatto un brutto sogno".
"Ah! Hai visto? E non ti preoccupare. I brutti sogni
sono curativi quanto e più dei sogni belli. Può darsi che
qualche altra notte fai qualche altro brutto sogno, ma poi ricominci a
sognare di volare sopra a tutti i palazzi e alla fortezza, come hai sempre
fatto".
Rientrò diretto in cucina mentre ancora sorrideva
soddisfatto. Ma io non mi sentivo contento. La signora Teresa arrivò
dopo un minuto a portarmi la limonata. Si sedette anche lei sotto la pergola.
"Antò, ho sentito che hai fatto un brutto sogno,
Raccontamelo subito, prima che te lo scordi. Se ci sono i numeri ce li
giochiamo".
"Non mi sento di giocare, donna Terè. E' stato
veramente brutto... Vi ricordate Assuntina, la signora che stava con me
l'anno scorso... Ho sognato di vederla morta". Ero così emozionato
che una lacrima mi scese sulla barba che, quella mattina, non mi ero tagliato.
Me l'asciugai subito col dorso della mano.
"Uh, quello piange!" gridò Teresa "Ma che piangi
a fare? E' un sogno, non è realtà".
"Lo so, lo so. Ma io mi ci ero affezionato. Sapete, quella
aveva detto che quest'anno sarebbe tornata, ma fino ad oggi non s'è
vista".
"Ma quante volte t'ha telefonato? Almeno dieci, venti
volte...".
"Io ci ho parlato due, tre volte in tutto. E tutto quello
che sapevo dire era: come stai? Stai bene? Anch'io. Mai niente di più.
Tutto quello che le volevo dire mi veniva dopo che avevamo attaccato il
telefono. Glie lo dicevo nei sogni che facevo la notte. Ma la volta dopo
che riuscivo a parlarci per telefono, m'ero scordato tutto. E adesso, forse,
non posso più parlare con lei".
"I numeri. I numeri" gridò Teresa "Maddalè,
porta il libro dei numeri. Ah già quella è andata a fare
la spesa". Andò di corsa verso la cucina.
Don Pasquale tornò col coltellaccio in mano.
"Antò, ho sentito tutto dalla cucina. Ma non devi
abbatterti. E' solo un sogno...".
"E si sa, la vostra cucina ha l'acustica di un teatro.
Ma voi non l'avete vista. Io sì. Era stesa in terra, sulla montagna.
In faccia era tutta bianca, ma il corpo era insanguinato. Io ero corso
sulla montagna. Forse era monte Orlando. Ma non ho fatto in tempo. Ho visto
gli orsi che se ne andavano".
"E già, monte Orlando! Lo sai che là c'è
solo qualche cornacchia e tante farfalle. Anzi, io stavo proprio pensando
di mandartici, oggi, a riposarti. Lassù si respira bene, non c'è
traffico. Ti preparo una pagnotta con prosciutto e insalata. Così
puoi starci tutto il giorno".
L'allegria di don Pasquale era contagiosa. Sorrisi anch'io.
"Don Pasquà, voi mi viziate sempre. Sapete quanto
poco vi posso ripagare, con le poche cozze e vongole che vi porto...".
In quel momento tornò Maddalena, la figlia di
don Pasquale e della signora Teresa, con due borse di plastica piene.
"Antò, lo sai chi ha telefonato ieri sera?" disse
Maddalena.
"Come, Maddalè, telefona qualcuno per Antonio
e non ci dici niente?" la rimproverò don Pasquale.
"Eh, m'era passato di mente, con tutto quello che avevo
da fare".
"Eh, lo so io quello che avevi da fare. Picceré,
statt'accorta a dove vai la sera...".
"E dove vado? Dove vanno tutti, la sera. In piazza, a
prendere un po' di fresco dopo la giornata di fatica. Ieri sono andata
con Sabrina e Annuccia... Ma lo volete sapere o non lo volete sapere chi
ha telefonato per Antonio?".
Don Pasquale non poté trattenere la sua risata
sonora.
"Qui c'è una sola persona che telefona per Antonio"
disse guardandomi negli occhi e ridendo "e che ha detto?".
"Tanti saluti a tutti. E per questo mese non si può
muovere da Roma".
"E quando si può muovere?" chiesi con ansia.
"Questo non lo ha detto".
"Ma ha detto perché?"
"No".
Rimasi a pensare. Il brutto sogno mi tornava in mente.
Non avevo mai telefonato ad Assuntina, anche se lei mi aveva dato il numero.
Con quali soldi potevo telefonare? Io non so nemmeno come è fatto
un euro. Una volta ho trovato una moneta nel sacco delle telline, ma era
una moneta antica, non si sa se borbonica o addirittura romana. Don Pasquale
l'ha messa sul cornicione del camino, e ogni tanto qualche turista la prende
per guardarla, ma nessuno la sa riconoscere.
Don Pasquale tornò con la pagnotta che aveva preparato.
Mi guardò negli occhi e capì.
"Sù, Antò, vai a telefonare. Fatti fare
il numero da Maddalena".
Rimasi un po' a guardarlo a bocca aperta. Poi mi alzai
e andai. Presi il telefono e feci io il numero. Avevo imparato guardando
gli altri. Non so perché, tutti pensano che non conosco nemmeno
i numeri.
Assuntina rispose dopo parecchi squilli.
"Assuntì, sono io, Antonio".
"Che sorpresa! E come hai fatto?".
"Don Pasquale mi ha dato il permesso".
"Va bene, ringrazialo".
"Don Pasquà, Assuntina vi ringrazia" gridai.
"Ehi, non strillare così forte, che m'insordisci".
"Scusa, scusa, Assuntì. Sapessi come mi dispiace
che non puoi venire".
"Forse vengo il prossimo mese. Adesso c'è ancora
troppo polline in giro e io sono allergica".
"Ah, questo non lo sapevo".
"Sì, Totò, sono allergica da parecchi anni.
Ma quest'anno, pare che mi sono aggravata. Il dottore ha detto che devo
stare chiusa in casa per tutto maggio e forse anche per i primi giorni
di giugno. Se piove, un giorno o due, poi posso uscire".
"Ma come fai a stare chiusa in casa? E il tuo lavoro?
E la spesa chi la fa?".
"La spesa me la fa mia madre o mia sorella. Al lavoro,
quest'anno mi assento per due mesi: uno di malattia e uno di vacanze".
"Ah, e ti pagano lo stesso?".
"E' ovvio. Senti, perché non vieni tu? Qualche
soldo ce l'hai? Poi ti ospito io. Abbiamo tutto qui".
"Mah, non lo so. Vediamo...Stanotte ho fatto un brutto
sogno...".
"Un brutto sogno? Raccontamelo, dài".
"No, è meglio di no. Non ci voglio pensare. Adesso
devo andare sul monte Orlando. Don Pasquale mi ci vuole mandare per forza.
Mi ha preparato una pagnotta così grande che mi basterebbe per tre
giorni".
"E che ci vai a fare sul monte Orlando? Non avrai un'altra
donna? Guai a te".
"Assuntì, che dici. Tu lo sai che sei l'unica
donna della vita mia".
"Dài, vieni a Roma col treno, solo per qualche
giorno. Staremo bene. Ti faccio giocare col computer".
"Assù, tu lo sai che don Pasquale ha bisogno dei
frutti di mare".
"No! Con questo caldo i frutti di mare fanno male! E
poi se ti manda sul monte Orlando ti può mandare anche a Roma per
qualche giorno".
Don Pasquale stava lì ad ascoltare.
"Lascia stare i frutti di mare" intervenne "Con questo
caldo nessuno li vuole".
"Fammici pensare" dissi al telefono "I soldi li dovrei
chiedere a don Pasquale" dissi guardando lui negli occhi.
"Va bene, pensaci. Ma fammi sapere quando arrivi che
mando mia sorella a prenderti alla stazione".
"Va bene. Cerca di stare bene e tieni tutto chiuso, per
non fare entrare questi pollini".
"Daccordo, ciao. A presto".
"Ciao".
Non avevo mai parlato tanto al telefono. Don Pasquale
mi guardava per cercare di capire che voleva Assuntina e perché
ci volevano dei soldi.
Io non dissi niente. Presi la busta di plastica con la
pagnotta e la bottiglia di plastica con l'acqua, e mi avviai.
"Antò, hai bisogno di soldi?"
"No, don Pasquà, che ci faccio io coi soldi? Con
questa pagnotta posso campare anche quattro giorni" dissi ridendo.
Ma don Pasquale mi corse dietro e mi mise cinque banconote
nella tasca dei calzoni. Quel giorno avevo quelli lunghi blu. Quelli corti
li avevo lavati il giorno prima e li avevo stesi ad asciugare. Presi i
soldi e li contai. Erano cinque banconote rosa da 10 euro. Guardai in faccia
don Pasquale e quasi mi venne da piangere. Me li rimisi in tasca e me ne
andai.
Uno come me, che non ha mai toccato un euro con un dito,
e lui lo sa, che ne può fare di cinquanta euro?
In cima a monte Orlando ci arrivai presto, ma non ci
si respirava così bene. Dentro di me volevo accertarmi che non ci
fosse traccia di quei bestioni feroci che, nel mio sogno, avevano ammazzato
Assuntina. Invece vidi solo qualche volo di cornacchia, una camionetta
di soldati che, passando, appestò tutta l'aria con la puzza di nafta,
e qualche farfalla. Da certe parti più folte del bosco venivano
fischi e gorgheggi di merli. Dal belvedere, sotto la statua della Madonna,
vidi la fortezza, le navi, il traffico del lungomare e, più lontano,
la spiaggia bianca con qualche corpo umano piccolo piccolo steso al sole.
Quante volte ho percorso quella spiaggia a piedi. Quante volte sono sceso
nell'acqua per riempire di vongole veraci il mio retino. Fu guardando da
lassù quella spiaggia che mi venne l'idea. Che prendo a fare il
treno? Per sprecare soldi? Ci vado a piedi.
Tornai in paese quasi di corsa. Passai da casa per prendere
lo zainetto. Ci misi dentro il coltello a serramanico, il cappello bianco,
una camicia, due costumi da bagno, i pantaloni corti, la giacca a vento,
lo spazzolino, il dentifricio, un asciugamano, un pezzo di sapone, un rasoio
bilame 'usa e getta' già usato almeno dieci volte e tre buste di
plastica. Per sicurezza ci misi anche la polpara. Il retino no, dove lo
mettevo? Poi, con lo zaino e la busta di plastica già pronta con
le cibarie, scesi al ristorante. Salutai don Pasquale e la signora Teresa.
Maddalena era uscita di nuovo per vedere se al mercato c'era già
qualche melone buono, che adesso vengono da tutto il mondo e costano poco.
Dissi che avrei preso il treno per Roma e sarei stato con Assuntina per
tre o quattro giorni. Don Pasquale mi diede altri quaranta euro.
"Di più non te ne posso dare, che domani devo
pagare la pigione. Se hai bisogno ti faccio un vaglia postale".
La signora Teresa mi diede un pezzo di carta con il numero
di telefono del ristorante. Me lo misi in tasca, li baciai, dissi di salutare
Maddalena e me ne andai, pensando che se non avevo quel padre e quella
madre putativi quella volta potevo morire disperato.
Al porto girai a destra e mi avviai verso la spiaggia
bianca, lunghissima, piena di bagnanti. Questa arriva di sicuro fino a
Ostia, pensai. Mi tolsi le scarpe di pezza blu, le misi in una busta di
plastica e proseguii sul bagnasciuga guardando di qua e di là: la
gente che stava stesa a prendere il sole o all'ombra degli ombrelloni,
i ragazzi che giocavano a pallone, i bambini che scavavano con la paletta
nella rena, i bagnini seduti vicino al moscone rosso a guardare continuamente
il mare, sempre con pochi nuotatori, e a rispondere alle ragazze che li
guardavano - e qualcuna gli accarezzava il petto villoso - senza nemmeno
guardarle in faccia. Dall'altra parte c'era il mare, il mio mare, che vedo
quasi ogni giorno, a strisce bianche, verdi e blu, qualche volta rosa,
qualche volta viola, a quell'ora pieno di scintille accecanti. Lontano
lontano due vele bianche, una nave e un motoscafo che s'avvicinava a tutta
velocità. C'era pure il cielo azzurrissimo, con due o tre nuvolette
e una striscia di aeroplano a reazione. E c'era la solita brezza, non tanto
fresca a quell'ora. Che potevano essere? Le undici.
Quando arrivai sotto la torre poteva essere la mezza.
La conoscevo bene quella torre. C'ero passato tante volte mentre raccoglievo
le telline. Lì mi fermavo, mi tuffavo e trovavo quasi certamente
le cozze sotto gli scogli in certi posti che solo io conosco. Non avevo
ancora fame. Andai avanti ancora per un bel po'. Prima di mangiare mi voglio
fare un bagno, pensai. Ma dovetti uscire dalla spiaggia e andare sulla
strada, perché c'erano troppi scogli a picco sul mare. Le macchine
puzzolenti e rumorose andavano velocissime. Io mi tenevo accosto ai cespugli,
dove potevo. In certi punti c'era solo l'asfalto. Allora passavo di corsa
quando non passava nessuna macchina. Finalmente, dopo tre o quattro chilometri,
c'era un viottolo che rientrava alla spiaggia. Su un cartello c'era scritto:
"Torre Capovento". Fino a qui a piedi non c'ero mai arrivato. C'ero passato
due o tre volte con Poldino sul motorino, per andare a pescare più
a nord, sotto Sperlonga: lui con la lenza, io con la polpara e il retino.
Il traffico delle auto s'era un po' calmato. Scesi verso la spiaggia, ma
trovai solo scogli e cespugli. Allora mi misi sotto a un cespuglio di mirto,
all'ombra, e mi misi a mangiare. Una gatta sentì subito l'odore
del prosciutto e venne a vedere e a miagolare. Doveva avere i suoi gattini
da sfamare. Presi dalla pagnotta una bella fetta grassa e glie la misi
su una zolla d'erba. L'inghiottì in un solo boccone. Vidi se potevo
dargli qualche altro pezzo. Gli diedi solo il grasso. Quando finii, incartai
il resto della pagnotta, più di metà, e lo rimisi nella busta.
La gatta capì che se ne doveva andare. Bevvi un po' d'acqua e mi
rimisi in cammino. Dovetti superare parecchie dune cespugliose prima di
ritrovare la spiaggia sabbiosa. Ma durò poco. Non c'era nessun bagnante
a quell'ora. Dopo non più di mezz'ora dovetti tornare sulla strada
e vidi diversi cartelli: uno indicava le grotte di Tiberio, un altro la
villa di Tiberio e un altro Sperlonga.
Pensai di andare a trovare Salvatore, il pescatore che
abita a Sperlonga, e proprio mentre ci pensavo, sentii la sua voce che
mi chiamava da una macchina verde che si fermò venti metri più
avanti.
"Antò, che fai qui a quest'ora? Dove vai?".
"Eh, vado... a Chiancarelle... mi aspettano per stasera.
Ma stavo proprio pensando di venirti a trovare".
"Cacchio, ma tu vai sempre a piedi, anche se, mettiamo
il caso, dovessi andare a Roma?".
"Beh, non esageriamo..." mentii.
Qualche macchina riusciva a superare. Ma molte altre
si erano messe in coda e cominciavano a strombazzare.
"Sali, che ti porto io per un pezzo" disse aprendo lo
sportello di destra.
Salii e mi sedetti. Mi tolsi lo zaino, in cui avevo messo
tutte le buste che avevo, e lo appoggiai sul pavimento della macchina tra
le mie gambe. Veramente mi faceva un po' schifo, perché tutta la
macchina era piena di polvere e puzzava di pesce".
"Salvatò, che hai preso, qualche murena? Qualche
gronco. Qui si sente una puzza...".
"Seh, murene, gronchi? Ho pescato sotto la grotta due
saraghi da più di un chilo l'uno! Se vieni a casa mia, invece di
andare a Chiancarelle, ce li mangiamo stasera, con l'insalata e le cipolle
dell'orto mio, che poi ti lecchi quei baffi da micione che hai".
L'idea dei saraghi con le cipolle mi fece dimenticare
di colpo la puzza che c'era dentro quella macchina. Mi cominciai subito
a leccare i baffi. Erano salati.
"E come faccio? Quelli mi aspettano...".
"Ma quelli, chi?".
"Eh... c'è Poldino e l'altro pescatore... come
si chiama?...".
"Beh, andiamo a casa, che ci prendiamo almeno un bicchiere
di vino rosatello fresco fresco. Poi ci pensiamo".
Ormai ero deciso ad accettare tutto. Volevo solo scendere
al più presto possibile da quella carretta che puzzava, con tutta
l'aria che entrava da tutte le parti".
Salvatore è più giovane di me. Avrà
quarantacinque, quarantasei anni. E ha anche una moglie bella e simpatica,
di trentasette, trentotto anni.
Arrivammo al suo orto in dieci minuti. Andammo subito
a lavarci alla fontana in mezzo a due ulivi che facevano da sostegni a
una vite grossa come un braccio. Salvatore portò i due saraghi sollevandoli
in alto e simulando uno sforzo esagerato come se pesassero chi sa quanto.
Tra due rami dell'ulivo di destra c'era appoggiata la forbice che Salvatore
usava sempre per pulire i pesci. Aprendo il rubinetto, subito si sentiva
il rumore della pompa che pescava l'acqua dal pozzo. Prima che cominciasse
la pulizia dei pesci, gli diedi una spinta e mi misi a sciacquarmi le mani
e la faccia. Avevo camminato per parecchie ore, fino a quel momento. La
mia pelle e la mia barba erano arse e intrise di salsedine. Dovevano essere
le cinque o le sei. D'estate non s'indovina bene l'ora. In quei giorni
doveva essere primavera, ma il caldo era quello dell'estate. E le giornate
erano già belle lunghe.
Dalla catapecchia, fatta con bei blocchetti di tufo,
ma coperta di plastica trasparente ondulata, uscì Valentina, la
moglie di Salvatore. Era un fiore. Salvatore lo sapeva che a me piaceva
e ci scherzava, ma sapeva anche che non avrei mai osato nemmeno sfiorarla
con un dito, a parte i saluti di benvenuto e di commiato. E difatti Valentina
mi corse incontro ridendo e baciò senza ritegno le mie gote ancora
bagnate e ispide. Ed io la ricambiai timidamente, senza toccarla con le
mani bagnate.
"Valentì, prendi tre bicchieri, che andiamo in
cantina a farci un goccetto di quello che sai, fresco fresco. A quest'ora,
col caldo che fa, è proprio quello che ci vuole".
"Salvatò, bello mio, ma quando li hai presi quei
bestioni? Li hai pesati? Ce li mangiamo con Tonino?".
"Poi vediamo, Valentì, bella mia, quello, Tonino,
deve andare non si sa dove".
Ci avviammo verso la cantina, dietro la casa. Ma prima
Valentina entrò in casa e tornò con i tre bicchieri che servivano.
I pesci avrebbero aspettato sul fondo della vasca, prima di essere pesati
e puliti. Forse si sarebbero riempiti di mosche. Lo zaino me lo stavo portando
in cantina, quando Valentina lo vide, me lo tolse e lo gettò su
una zona erbosa davanti alla casa.
"Venite, venite, adesso accendo la luce. Ecco, Tonì,
guarda che belle botti. Vieni, Valentì, bella mia. Riempiamo i bicchieri".
Io rimasi in piedi dietro i due 'belli' che si accucciavano
per riempire i bicchieri. Dalle cannelle uscì un liquido rosa, spumeggiante
e profumatissimo. Non li lasciarono traboccare e, quando si alzarono, la
spuma, dissolvendosi, lasciò tre bicchieri riempiti a metà.
Presi il mio dalla bella mano ambrata di Valentina e assaggiai, mentre
loro aspettavano il mio giudizio. Era freschissimo e di un sapore mai sentito,
delizioso. Mi esaltai e volli scherzare.
"Salvatò, questo vinello è un fiore, come
Valentina".
Subito la risata squillante della bella donna echeggiò
nella cantina.
E salvatore, guardandomi negli occhi disse: "Valentina
è un fiore sgargiante che non sfiorisce mai. Ma solo per me". E
poi si mise a ridere anche lui.
"Effettivamente in questo vino" aggiunse "c'è
qualcosa di Valentina: i piedi. Ma anche i miei. Ti ricordi, Valentì,
bella mia, come ci divertimmo a ottobre nella vasca dell'uva?".
Al ricordo non poterono trattenersi, e si abbracciarono
e baciarono a lungo sotto i miei occhi. Io finii il mio vino e mi sedetti
in terra. La stanchezza della lunga camminata mi assalì in quel
momento. Camminare sulla rena, a piedi scalzi, per chilometri e chilometri,
anche senza retino, è un'impresa faticosa. Mi venne anche un po'
di sonno e chiusi gli occhi. Non pensavo più nemmeno ad Assuntina.
Quando i due amanti si slacciarono, "Tonì, che
fai?" dissero in coro.
E Valentina: "Ueh, quello dorme! Che ha?". Ma io subito
aprii gli occhi e sorrisi.
"Non dormo, non dormo. Aspettavo i vostri comodi. Ma
m'è venuta la stanchezza tutta insieme. E' tutto il giorno che cammino".
"E se non ti fermavo io, ancora stavi a camminare" disse
Salvatore.
"Sapete che faccio?" dissi "Adesso telefono a don Pasquale
di mandare a cercare Poldino e di dirgli che a Chiancarelle non ci vado.
Perché quei saraghi mi fanno gola e per voi sono troppi. Ah, ma
voi avete il telefono?".
"E come, non ce l'abbiamo?" disse Valentina. Mi accompagnò
in cucina, dove stava il telefono. Intanto Salvatore andò a pesare
e a pulire i saraghi giganti.
Quando al telefono rispose Maddalena, le dissi: "Maddalè,
dì che stasera mi sono fermato da Salvatore e che quindi lì
ci vado domani o dopodomani. Ciao".
Così a Valentina non feci capire niente. Di solito
non dico bugie e non nascondo niente, ma potevo mai far capire che non
dovevo andare a Chiancarelle, ma a Roma?
Intanto Valentina era uscita a vedere la pulizia dei
pesci, e io feci un'altra telefonata: ad Assuntina. Le dissi che contavo
di andare domani o dopodomani e che avrei ritelefonato. Uscii anch'io per
lo spettacolo della pulizia. Quando arrivai era già tutto pronto.
"Tonì, guarda qua" disse Salvatore "Questo pesa
sette etti senza viscere, e quest'altro otto".
Il barbecue era qualche metro più in là.
Salvatore ci mise qualche tralcio di vite secco e qualche pezzo di ulivo
preso da una catasta accumulata alla potatura di febbraio o marzo. Ci spruzzò
anche un po' di spirito e poi l'accese con un accendino. Si alzò
una bella fiammata di breve durata, ma sufficiente ad avviare un bel fuoco
che avrebbe ridotto in brace tutta la legna sistemata nel barbecue in una
mezz'oretta. I pesci, sviscerati, attendevano di nuovo in fondo alla vasca.
Valentina andò a prendere in cucina il sale e l'olio, mentre Salvatore
raccoglieva dall'orto due o tre rametti di rosmarino e li legava con un
filo di paglia robusto. Io vidi, in fondo all'orto un albero di limoni
con fiori e frutti copiosi e, senza chiedere il permesso, andai a staccare
due limoni, tanto lo sapevo che in quell'orto si faceva così. Salvatore
approvò con un cenno e appoggiato il rosmarino su un ripiano di
ferro sotto al barbecue, andò, con le forbici, a raccogliere qualche
foglia di prezzemolo e qualche ciuffo di insalatina fresca e tenerissima.
Mi piaceva la vita che facevano quei due. Spesso Salvatore vendeva i pesci
ai ristoranti di Sperlonga e così riusciva a campare e a coltivare
l'orto con l'aiuto di Valentina. Ah, se avessi avuto anch'io un terreno
così e una casetta dove andare a vivere con Assuntina...
Negli ultimi tempi, l'invidia, che prima non conoscevo,
ogni tanto mi entrava nel cervello e mi faceva soffrire. E non era invidia
solo per quella coppia beata. Si può benissimo invidiare qualcuno
anche se gli si vuole bene. E io, un po', invidiavo anche don Pasquale,
Teresa e Maddalena. Spesso, negli ultimi tempi, invidiavo perfino Poldino,
solo perché lui era capace di starsene seduto su uno scoglio, per
ore e ore, con qualunque tempo, aspettando che un pesce si allamasse. E
a lui il pesce si allamava veramente. Ma, soprattutto, invidiavo certi
turisti che si sedevano al ristorante, mangiavano, bevevano, ridevano,
chiacchieravano ad alta voce, poi se ne andavano a passeggiare per tutto
il paese e non facevano niente tutto il giorno.
Arrivava qualche soffio di vento tiepido. La brace era
quasi pronta.Valentina andò a prendere un tavolino in cucina e lo
portò sotto la pergola. Poi io la aiutai a portare le sedie, mentre
Salvatore cominciava a mettere i pesci sulla graticola e ad ungerli con
il mazzetto di rosmarino intinto d'olio d'oliva. L'odore del pesce grigliato
si alzò subito. Lo sentirono anche due passanti che, tornando a
casa, salutarono i miei due ospiti dalla strada. Il rumore del traffico
si sentiva, ma lontano, attutito molto, e confuso con qualche tonfo del
mare che da lì non si vedeva, ma cominciava a muoversi. Verso il
mare, in fondo, l'aria si vedeva che era calda, ma offuscata e con una
nuvolaglia che, piano piano, si muoveva.
"Potrebbe anche piovere, domani" dissi.
"Speriamo di no" disse Salvatore "La stagione dei temporali
dovrebbe venire più in là. Comunque, piove o non piove, domani
mattina presto torno alle grotte".
"E perché?" chiesi.
"Ci ho lasciato cinque filaccioni. Vedrai che qualche
gronco o qualche murena ce la trovo. E se sono fortunato ci trovo pure
una corvina".
In venti minuti i saraghi furono ben cotti. Li divorammo
rapidamente insieme all'insalata, che Valentina aveva condito, e ad un
bel pane cotto a legna. Poi facemmo tutti e tre una passeggiata nell'orto
camminando sull'erba in mezzo agli ulivi, alcuni con i fiori, altri già
con piccole olive.
"Tonì, adesso ti prepariamo la brandina in cucina"
disse Salvatore "Ci vediamo prima un po' di televisione e poi ce ne andiamo
a dormire. Se vuoi, domani mattina vieni con me".
"Beh, Salvatò, posso dormire qui, se vuoi, ma
domani presto me ne devo andare".
"E dove devi andare?".
"A Roma".
"Non mi venire a dire che ci vuoi andare a piedi!".
"Beh... sì. Tanto non ho fretta".
"E lo dicevo io. Se te lo metti in testa, vai a piedi
anche a Santiago di Compostela. Ci metti due anni ma ci arrivi!".
All'imbrunire entrarono tutti in Cucina. Salvatore mi
mostrò la brandina da campo che dovevo aprire e usare più
tardi. Intanto ci sedemmo tutti a guardare la televisione. Mi venne subito
sonno, ma cercai di stare sveglio. Non ci riuscii. Quando riaprii gli occhi
la brandina era già aperta. Salvatore mi disse di tirare la porta
quando me ne sarei andato e se ne andò a dormire con Valentina,
beato lui. Io dovetti solo spegnere la luce, togliermi la camicia e i calzoni
e coricarmi. Mi addormentai subito.
Quando mi svegliai si vedeva e non si vedeva un poco di
luce filtrare dalle fessure della finestra. Due o tre merli stavano fischiando
a turno a tutta forza. Mi alzai, presi le mie cose dallo zaino, raggiunsi
il bagno a tentoni, accesi la luce, mi guardai nello specchio, mi misi
a urinare e ci stetti un bel po', perché erano passate almeno dieci
ore da quando avevo fatto pipì l'ultima volta, nell'orto, dietro
il limone. Poi mi lavai i denti, le mani e la faccia e mi feci la barba.
Con una passata leggera di rasoio mi accorciai un po' anche i baffi. Poi
dovetti liberarmi anche l'intestino. Feci presto. Oltre ai fischi dei merli,
non si sentiva altro. Non volevo fare rumore io. Salvatore e valentina
non erano abituati ad essere svegliati a quell'ora. Potevano essere le
quattro. Vidi che c'era un secchio. Lo riempii d'acqua e pulii con quello
il water. Uscii dal bagno lasciando un momento la luce accesa per poterci
vedere un po' anche in cucina. Ma non ci si vedeva abbastanza. Allora accostai
la porta e accesi la luce anche in cucina. Sul tavolo c'era un foglio con
scritto sopra a pennarello: "Per Tonino". Sotto al foglio c'era una tessera,
sì, avevo visto tanti che le usavano: era una tessera telefonica
usata, perché mancava il triangolino. Sopra c'era scritto 20 euro.
Il pennarello era lì e quindi scrissi sul foglio: "Grazzie. Vi devo
un mezzo sacco di vongole veraci". Rimisi tutto nello zaino, mi infilai
la camicia e i calzoni del giorno prima, spensi la luce nel bagno e in
cucina e uscii tirando la porta, come mi aveva raccomandato Salvatore.
C'era ancora poca luce. Mi avviai verso la spiaggia di Sperlonga, che non
era lontana. Là mi tolsi le scarpe di pezza e proseguii, come sempre,
a piedi scalzi, sul bagnasciuga. Sentii l'acqua fredda fredda. Cercai di
tenermi al limite, dove la sabbia era già bagnata ma poco. Camminai
moltissimo. Man mano che l'aria si schiariva, la spiaggia sembrava più
lunga e più bianca. Dopo un'ora di cammino incontrai un canale e
dovetti salire su una strada bianca che lo scavalcava. Verso l'interno
c'era un lago pieno di canneti. Sentii diverse voci di uccelli di palude
e vidi anche volare un airone grigio che mi sembrò grandissimo.
Per la strada bianca non avevo perso tempo a rimettermi le scarpe. Continuai
ancora per una o due ore sulla spiaggia. A un certo punto la strada provinciale
si avvicinò a pochi passi dalla spiaggia. Vidi qualche casa intorno
alla strada. Doveva esserci anche un bar. Infatti lo trovai subito e mi
feci dare un cappuccino e un cornetto con la crema. Pagai con la prima
delle banconote da 10 euro che mi aveva dato don Pasquale. Il barista mi
diede un mucchio di monetine di resto e un biglietto da 5 euro. Uscii con
le monete in mano. Qui bisognava fare un po' di scuola. Trovai una sedia
vicino a un portone e mi ci sedetti per contare le mie monete. Ci stetti
almeno dieci minuti e, alla fine, constatai con soddisfazione che il resto
era giusto: erano due euro e novanta centesimi. Mi alzai, misi tutte le
monetine in tasca e proseguii per la strada, con le scarpe, verso Terracina,
che ormai era a pochi chilometri. Per qualche tratto potei tornare sulla
spiaggia, ma era sempre più difficile, perché c'erano canali,
muri e caseggiati che mi impedivano di proseguire. Alla fine entrai nel
paese e dovetti chiedere a qualcuno la via, dissi, per andare al Circeo.
Ci misi un bel po' ad attraversare tutta la zona abitata. In una piazza
mi affacciai alla spalletta di un canale per vedere se c'erano pesci. C'erano
molti cefali che boccheggiavano a pelo d'acqua.
Quando, finalmente, potei togliermi di nuovo le scarpe,
dall'altra parte di Terracina, la spiaggia mi apparve ancora più
lunga di quella di prima. E questa era strapiena di ombrelloni e gente
stesa al sole. Molti erano anche nell'acqua a nuotare e a giocare. Prima
di proseguire, tornai un po' verso l'interno, trovai un giardino pubblico
semideserto e un cantuccio abbastanza nascosto dietro una fratta. Là
tolsi le banconote dalla tasca, ne misi quattro da dieci in una busta di
nylon, che poi ripiegai molte volte fino a farne un quadratino di dieci
centimetri circa di lato, e le altre quattro più quella da cinque
euro le misi in un altra busta che ripiegai alla stessa maniera della prima.
La prima busta me la misi in tasca. La seconda la misi sul fondo dello
zainetto. Quindi tornai sulla spiaggia. Quando arrivai in un punto della
spiaggia che mi sembrava meno popolato, presi l'asciugamano e lo stesi
sulla sabbia più pulita che riuscii a trovare. Sopra all'asciugamano
appoggiai il sacco, ma di vento ce n'era poco. Mi sfilai i pantaloni e
li arrotolai in modo che le monete non cadessero nella sabbia. Poi mi tolsi
la camicia e rimasi solo con le mutande da bagno rosse. Quindi mi tuffai
nell'acqua e mi feci una nuotatina presso la riva, dove si toccava. Ogni
tanto guardavo il sacco per controllare che nessuno ci si avvicinasse.
Quel bagno era quello che ci voleva per ristorarmi dopo tutta quella camminata.
Mi stesi sull'asciugamano e chiusi gli occhi. Stetti sdraiato una mezz'oretta
esponendo al sole un po' la pancia e un po' le spalle. Quando fui asciutto,
a parte le mutande da bagno, e il sole mi cominciava a dare fastidio, mi
misi la camicia, ficcai i calzoni e l'asciugamano nello zaino e tornai
di corsa al giardino pubblico. Trovai una zona erbosa all'ombra e mi misi
a riposare un altro poco. Poi, al riparo di un cespuglio, mi cambiai il
costume e quello ancora umido lo stesi su qualche ramo insieme all'asciugamano.
In un'altra mezz'ora fu tutto quasi asciutto. Scartai la pagnotta e controllai
che il prosciutto con l'insalata non si fosse già ammuffito. No,
era ancora buono. Mangiai un'altra metà di quello che rimaneva.
Ritirai le cose stese ad asciugare e tornai, sempre a piedi scalzi, sulla
spiaggia, di corsa per raggiungere il bagnasciuga. In nemmeno mezz'ora
arrivai a Porto Badino. Per passare il canale dovetti rimettermi le scarpe
e andare sulla strada. Dal ponte vidi un numero spropositato di barconi
tutti bianchi o avana, comunque repellenti: niente a che fare con le barche
dei pescatori che tanto tempo fa si vedevano ormeggiate nei porti, anche
a Gaeta. A quanto pare, le barchette di legno colorate non esistono più,
almeno in questa parte dell'Italia. Se non ci fossero i riflessi del mare
che, miracolosamente, assumono tutte le sfumature possibili dell'arcobaleno,
queste barche moderne, così come le navi, le case, i grattacieli,
ci farebbero vedere tutto in bianco e nero. Meno male, i padroni di questi
barconi, che si pavoneggiano qui intorno, non li posso invidiare. Sul pontile
una decina di pescatori si dava da fare con le canne. Mi venne voglia di
provare con la polpara, ma poi, se avessi preso il polpo, che ne avrei
fatto? Avevo in mente di portarlo in omaggio ad Assuntina e alla sua famiglia.
So che ad Assuntina piace il polpo, se ammorbidito e cucinato bene. Ma
lì non sapevo per quanto tempo dovevo camminare ancora, perciò
abbandonai l'idea e proseguii. Camminai tranquillamente per molte ore,
a piedi scalzi, sulla rena che non finiva mai. La vista del monte Circeo,
prima azzurro per la lontananza, poi sempre più vicino, mi accompagnò
per tutta la strada. Verso il tramonto ci arrivai quasi sotto. Non avevo
voglia di andare all'osteria a mangiare qualcosa di caldo. Vidi che il
resto della pagnotta s'era conservato abbastanza bene, avvolto nella carta
e nella plastica. Così mangiai quello che rimaneva. La carta la
rimisi nella busta di plastica. Quando fu quasi buio, non c'era più
nessuno sulla spiaggia. Mi tolsi la camicia e i calzoni, mi sciacquai nel
mare le mani e la faccia, cercando di non bagnarmi le mutande da bagno.
Poi ripresi il sacco e i vestiti e mi avviai verso il limitare della spiaggia.
Là, sotto un albero, feci pipì e poi mi spostai qualche metro
più in là, dove c'era un altro albero. Mi rivestii, stesi
l'asciugamano sulla sabbia e mi ci misi sopra seduto. In quel momento,
nell'immobilità, cominciai a sentire il suono ritmico del mare.
Io sono abituato a questo rumore e, dopo un po', non lo sento più.
Mi guardai bene tutto intorno per capire se c'era qualcuno a spiarmi. Quindi
presi le due buste con i soldi e le sotterrai in due punti diversi che
segnai con una croce per riconoscerli al risveglio. Per sicurezza mi fissai
in mente la distanza e la direzione dall'albero. Quando fu ancora più
buio vennero due innamorati a passeggiare e a baciarsi sulla spiaggia e
non mi videro. Poco dopo se ne andarono. Mi stavo per addormentare quando
sentii un gran frullare di ali e qualche gracchiata e poi, in riva al mare,
potei intravedere una bella fila di gabbiani che zampettavano qua e là.
Forse si preparavano a dormire anche loro. Beh, almeno avevo la loro compagnia.
Mi addormentai.
Quando mi svegliai era ancora tutto buio e non si sentiva
passare nemmeno una macchina sulla strada vicina. Andai a urinare vicino
all'albero dove l'avevo fatto qualche ora prima. Sentii un animale che
scappava tra le foglie dei cespugli. Sicuramente era un cane randagio.
In riva al mare cercai di vedere se c'erano ancora i gabbiani, ma non li
vidi. Forse se n'erano andati. Tornai al mio posto e mi feci almeno altre
tre ore di sonno. Quando mi svegliai di nuovo cominciava ad albeggiare.
In quel poco di chiarore potei vedere la fila di gabbiani ancora sulla
riva, alcuni in piedi e altri accovacciati, come se covassero le uova.
Probabilmente anche loro mi videro, ma la quiete e il silenzio furono rispettati
da entrambe le parti. Quella notte non avevo mai avuto freddo e il giorno
che veniva si preannunciava caldo forse anche più del precedente.
Però mi misi ancora i calzoni lunghi perché volevo salire
fino a S. Felice per fare colazione e per vedere dall'alto la strada che
m'aspettava ancora. Dissotterrai i miei soldi, li riposi e mi misi in cammino.
Le scarpe di pezza, con la suola di corda, non erano l'ideale per andare
in salita, ma, in un'oretta, arrivai in cima al paese. I negozi erano ancora
chiusi. Non c'era neppure un bar aperto. Quindi, dal punto più alto
che potei raggiungere, mi misi a guardare tutto intorno. All'orizzonte
c'era ancora molta foschia. Da una parte c'era tutto mare, dall'altra tutte
distese boscose. Sulla spiaggia da percorrere sapevo che dovevano esserci
dei laghi: qualche luccichio si intravedeva, ma molto poco. Trovai una
panchina e mi ci sedetti. Un cane marrone, con un orecchio alzato e uno
abbassato mi venne davanti sorridendo e scodinzolando. Cercai di fargli
capire che non avevo niente da mangiare e quello, quando fu stanco di festeggiarmi,
si stese sotto la panchina e chiuse gli occhi. Ma appena mi muovevo un
poco, li riapriva e alzava la testa. Dopo una mezz'oretta arrivò
un vecchio con un bastone e si sedette alla panchina vicina.
"Buongiorno." disse "Vi siete alzato presto! Prima di
me!".
"Buongiorno." risposi "Voi vi alzate sempre così
presto?".
"Eh, anche prima. E chi dorme la notte con questo caldo?
Le stagioni si sono tutte scombussolate. Li vedete, laggiù, come
volano? Sono balestrucci".
"Ah, è vero" dissi alzandomi per guardare meglio
nella vallata. Prima non li avevo notati.
"In questi giorni si alzano presto anche loro e stanno
sempre a volare qui intorno. Poi arrivano i rondoni e qualche rondine".
"Scusate" dissi "voi avete già fatto colazione?".
"No, no. Più tardi. Ma poi che colazione? Io mi
prendo un bel caffè dal sor Enrico e sto bene per tutta la mattinata".
"E voi come vi chiamate? Io mi chiamo Antonio".
"Ah, come mi chiamo? Mi chiamo Enzo. Voi siete forestiero?".
"Sì, sono di passaggio. E dove sta il sor Enrico?".
"Ah, ci volete andare? Venite con me".
Si alzò e si avviò verso un archetto a
passo svelto, senza mai appoggiare il bastone. Il cane si alzò,
riprese a scodinzolare, ma non volle seguirci.
"Andate piano. Non c'è fretta. Dobbiamo solo fare
colazione".
Non sembrava sentire. Percorse due o tre vicoli in discesa,
fino a una piazzetta. Il bar del sor Enrico era lì, sull'angolo.
Feci la solita colazione con cappuccino e cornetto, questa
volta appena scaldato nel forno a microonde, profumatissimo. Qundo ebbi
finito il vecchio Enzo stava chiacchierando delle ultime partite di calcio
con Enrico, e aveva ancora la tazzina in mano, mezza piena. Non mi sentirono
neppure quando li salutai e me ne andai. Prima di scendere dal paese tornai
al giardinetto di prima, dove mi accolse il solito cane scodinzolante.
Dal belvedere diedi un'altra occhiata alla spiaggia che volevo percorrere,
ma mi sembrò irta di ostacoli: case, muraglioni, grattacieli e la
strada costiera troppo vicina alla spiaggia e già a quell'ora percorsa
nei due sensi da molte automobili. Ormai potevano essere le otto. Vidi
anche, in lontananza, scintillare l'acqua dei laghi e, più a destra,
tante serre di plastica e qualche filare di viti e di alberi da frutta.
Doveva essere una parte di quello che don Pasquale chiamava 'agro pontino'.
Mi decisi a scendere pensando che, sicuramente, i prossimi quaranta, cinquanta
chilometri me li dovevo fare con le scarpe sulla strada d'asfalto. Mi ricordai
che ci doveva essere una strada più interna, dove il traffico doveva
essere minore. Chiesi informazioni a un passante che mi mandò alla
Fonte di Lucullo di là proseguii per Molella e Sabaudia. A sinistra
avevo il parco del Circeo, chiuso dietro una rete. Mi tenevo sulla sinistra
della carreggiata, come tante volte mi aveva consigliato don Pasquale,
per non rischiare di essere investito alle spalle. Verso le undici arrivai
a un bivio. Mi fermai un momento sotto un albero presi la busta dei soldi
che avevo in tasca e l'aprii. Era quella giusta. Tolsi i cinque euro e
una banconota da dieci. Poi ripiegai la busta e rimisi in tasca soldi e
busta. Decisi di andare a Sabaudia. In paese cercai qualche negozio di
scarpe, ma i prezzi erano altissimi, come quelli di Gaeta. Trovai un mercatino
con bancarelle piene di scarpe cinesi con prezzi più contenuti,
ma niente sotto i dieci euro. Io volevo comprarmi un paio di sandali con
la suola di gomma , ma dovetti comprare un altro paio di scarpe di tela,
come quelle che avevo, per cinque euro. Le avvolsi nella loro busta di
plastica e me le misi nel sacco. Poi entrai in un negozio di alimentari
e mi feci fare un panino con prosciutto cotto e caciotta. Spesi altri quattro
euro. Uscii subito dal paese per una strada secondaria che doveva riportarmi
sulla strada principale, ma più avanti. Quando ci arrivai, mi trovai
il parco del Circeo, sempre chiuso dietro una rete, ma a destra. Le macchine
ormai erano numerose, e io dovevo respirare il loro fumo pestifero. Ogni
tanto mi dovevo riparare dietro un albero, in un fossato o sopra una piccola
duna, per salvarmi da una macchina troppo veloce. Incontravo molte traverse,
a destra e a sinistra, con cartelli indicatori di luoghi mai sentiti. Ogni
tanto mi dissetavo con l'acqua di S. Felice. Quando arrivai alla traversa
che portava al lago di Fogliano decisi di andarci. Per quella strada passavano
meno macchine e potei guardare tranquillamente le bufale che ruminavano
sulle rive o con le zampe nell'acqua. Vidi anche qualche uccello acquatico
in volo o nell'acqua. La strada scavalcava il lago, con un ponte, e portava
sulla costiera, dove il traffico diventava di nuovo indecente. Attraversai
la strada e la percorsi per un po' sempre sul lato sinistro, finché
non trovai un varco per raggiungere la spiaggia. Mi tolsi le scarpe e tornai
di corsa sul bagnasciuga, dove continuai la marcia in mezzo a una folla
di bagnanti seminudi e beati. Solo io ero completamente vestito e non vedevo
l'ora di spogliarmi anch'io e di farmi un bagno ristoratore. Andai avanti
ancora finché non trovai una zona meno affollata. Là mi tolsi
la camicia e i calzoni, li buttai sulla rena e ci misi sopra il sacco.
C'era un po' di brezza. Mi tuffai e stetti a sguazzare per un bel po'.
Quando vidi un venditore di parei, cappelli e occhiali che camminava proprio
in direzione del mio mucchio di stracci, uscii dall'acqua, per prudenza,
forse eccessiva. Il vocumprà proseguì per la sua strada senza
nemmeno guardarmi. Mi venne da ridere: quello sicuramente aveva qualcosa,
io possedevo in tutto circa 78 euro. Presi l'asciugamano, lo stesi sulla
sabbia e, tenendolo fermo, mi ci sdraiai sopra. In quel momento mi accorsi
che il cielo si era un poco rannuvolato. Forse la pioggia che avevo previsto
due giorni prima sarebbe caduta quella sera o l'indomani. Mi venne in mente
Assuntina e la famiglia, sì, potevo benissimo dire la mia famiglia,
che avevo lasciato a Gaeta. Ci pensai seriamente: perché non avevo
preso il treno? A quell'ora sarei arrivato da un pezzo e starei con la
donna che amavo... Non lo sapevo. I soldi che mi aveva dato don Pasquale
li stavo spendendo lo stesso, a poco a poco, per mangiare e per camminare
sulle strada d'asfalto. E quanti pericoli correvo? Beh, a quelli ci ero
abituato. Quando uno sta tutti i giorni con i piedi nell'acqua di mare
e la testa al sole, con tutto quello che succede e che si vede in televisione,
i pericoli non mancano. Certo, quando uno poi cammina sulla strada, con
le macchine che sfrecciano in tutte le direzioni, è ancora peggio.
Dovetti addormentarmi, perché dopo un po' mi svegliai e mi sembrò
di ricevere sulle gambe qualche goccia di pioggia. Invece erano solo gli
spruzzi di un'onda un po' più forte. Mi girai sul lato sinistro
e vidi, sdraiata a pochi metri da me, una ragazza bellissima, con i seni
nudi. Mi sembrò che mi guardasse e mi sorridesse. Chiusi gli occhi
sperando di riaddormentarmi e di sognarmela. Li riaprii subito, ma quella
si era alzata e si stava tuffando. Rimasi lì a riposarmi fino al
tramonto. La ragazza se n'era già andata da un pezzo, e in tutta
la spiaggia eravamo rimasti in pochi. Allora mangiai la pagnottella che
mi ero fatto fare a Sabaudia. Poi mi alzai, presi le mie cose, mi infilai
la camicia, ficcai tutto il resto nel sacco e mi rimisi in cammino. Il
cielo era pieno di nuvole grige. All'imbrunire passai davanti a uno stabilimento,
dove tre o quattro persone stavano ripulendo la spiaggia e legando le sedie
e gli ombrelloni. Pensai che potevo dormire sotto alla tettoia di una cabina,
ma non mi fermai, per non tradire la mia intenzione. Feci bene, anche perché
da lì in poi incontrai uno stabilimento dietro l'altro. A un certo
punto il cielo era diventato molto più scuro e non si vedeva più
nessuno girare per la spiaggia. Mi avvicinai a una cabina, ma subito un
cane cominciò ad abbaiare. Mi fermai e tornai indietro di alcuni
passi. Poi tornai ad avvicinarmi lentamente. Il cane riprese ad abbaiare.
Mi sedetti su una pedana di legno e lasciai che il cane si sfogasse. Quando
smise, mi sdraiai sulla sabbia lì vicino. Ormai il cane aveva rinunciato
al suo mandato di guardiano. Dopo un po' mi alzai, misi il sacco sulla
padana, sotto la tettoia e mi allontanai un po' per andare ad urinare e
anche per vedere che avrebbe fatto il cane. Non diede segni di vita, e
io tornai al posto che avevo scelto e mi addormentai. Fui svegliato dalle
prime gocce di pioggia con qualche raffica di vento freddo. Presi dal sacco
i calzoni e la giacca a vento, li indossai e mi sdraiai sotto la tettoia.
Tesi l'orecchio: si sentiva solo il ticchettìo della pioggia, che
presto diventò uno scroscio poderoso. Ogni tanto appariva
un fulmine tortuoso e ramificato che si disegnava rapidamente tra le nuvole
sul mare, il cane abbaiava per lo spavento e, poco dopo, si udiva il rotolio
assordante del tuono. Mi addormentai. Lo sanno tutti che il temporale concilia
il sonno. Quando mi svegliai albeggiava appena e la sabbia era ancora bagnata.
Scavai una buca profonda almeno mezzo metro per assolvere al mio compito
quotidiano di quell'ora: mi spogliai, defecai nella buca e la ricoprii
con la sabbia, sperando che un bambino non sarebbe andato a scavare proprio
lì, almeno per qualche giorno. Fatte le consuete abluzioni con l'acqua
marina, stetti ancora un poco sotto la tettoia ad aspettare che l'acqua
sulla pelle si asciugasse almeno un po'. Poi, non sentendo freddo, mi misi
i calzoni corti e quelli lunghi li andai a sciacquare nell'acqua marina.
Li strizzai, li arrotolai nell'asciugamano e li riposi nella busta vuota
della pagnottella.. Mi rimisi il sacco sulle spalle e ricominciai a camminare
sulla sabbia, finché non trovai un varco che mi avrebbe portato
sulla strada. Quando ci arrivai mi guardai intorno: non c'era il minimo
segno di attività umana. Trovai un cartello che diceva 'Lido di
Latina', ma per andarci avrei dovuto prendere la direzione contraria a
quella della mia meta. Allora mi misi le scarpe vecchie, ormai quasi logore,
e continuai per la mia strada. Passai per Foce Verde e, in una mezz'oretta,
arrivai a Torre Astura. Non l'avevo mai vista, ma mi ricordavo qualcosa
a proposito di Corradino di Svevia che ci aveva dormito ed era stato tradito
da un certo Frangipane. Il paesaggio era bellissimo. Mi sarebbe piaciuto
fermarmi lì una giornata. Sicuramente, sotto quella torre, ci dovevano
essere degli scogli, forse, pieni di cozze. Mi guardai intorno. Più
avanti vidi un bar, ma era ancora chiuso. Allora decisi di andare a vedere
la torre più da vicino. Andai fin sotto la torre, che sta sopra
un isolotto attaccato alla terra da un lungo ponte. Guardai nel mare e
vidi dei cefali. Dove nuotano i cefali può anche esserci uno scarico
di fognatura, e difficilmente le cozze, se ci sono, sono commestibili.
Rimasi un po' deluso. Voltandomi per tornare indietro, vidi la pineta,
che sembrava enorme. Qualche pino isolato era anche al di qua della strada.
A mezza costa mi sedetti sotto uno di quei pini a guardare il mare. Guardai
verso sinistra e vidi tutta la spiaggia che avevo percorso, con l'acqua
dei laghi e, in fondo, il monte Circeo. A destra vedevo parzialmente la
spiaggia che dovevo percorrere e, in fondo, i tetti e i campanili di Nettuno.
Dopo una mezz'oretta ricominciai a salire verso la strada. Il bar ormai
era aperto e andai a farci colazione. Spesi due euro. Feci due o
tre chilometri, senza trovare nessuna traversa che portasse al mare. Passai
per un villaggio chiamato Acciarella e, dopo altri due o tre chilometri,
entrai a Nettuno. Continuai per un lungomare lunghissimo. Nel porto, attraccati
a parecchi pontili, c'erano i soliti panfili, con alberi alti anche 12-15
metri. Ma qua e là si vedeva anche qualche piccola barca verniciata
a colori vivaci, come si usava una volta e, da un paio di pontili
più lunghi partivano e arrivavano traghetti e catamarani. Ogni tanto
salivo in paese per guardare qualche negozio, tanto per confrontare i prezzi.
Non c'è bisogno neppure di dirlo: erano tutti prezzi altissimi,
come quelli di Gaeta e di Sabaudia. Comunque, in un negozio di alimentari
mi feci fare, questa volta per soli tre euro, una mezza ciabatta, di quelle
grandi, con dentro pezzi di coppa romana e carciofini. Poi da un verduraio
mi feci dare, per mezzo euro, due grandi mele 'deliziose'. Misi tutto nel
sacco e me ne andai, ancora con le vecchie scarpe, che resistevano ancora,
e col cappello in testa. Ad una fontanella pubblica, con rubinetto chiuso,
mi rifornii di acqua, non tanto buona ma, mi dissero, potabile. Sulla lunga
banchina del porto c'erano tanti bar e ristoranti all'aperto con tavolini
sotto gli ombrelloni. Ormai era passato mezzogiorno e molti già
erano seduti ai tavolini. Molti altri passeggiavano guardandosi intorno,
proprio come facevo io. Intanto, quasi senza che me n'accorgessi, Nettuno
era finito ed era cominciato Anzio. Anche lì c'erano tanti negozi,
bar, ristoranti, edicole di giornali, altre che vendevano granite, altre
ciambelle cosparse di zucchero. In un angolo vidi una cabina telefonica
e mi venne voglia di telefonare. C'era già qualcuno. Aspettai il
mio turno e quindi usai per la prima volta la tessera che mi avevano lasciato
Salvatore e Valentina. Passai un po' di tempo a leggere le istruzioni sotto
al telefono. Quando fui sicuro di aver capito tutto feci il numero di Assuntina.
Quando lei sentì la mia voce: "Ah, alla buon'ora!" disse "E quanto
ci mette questo treno?".
"Assuntì, sono ad Anzio a trovare certi amici,
poi ti racconto. Domani prendo il treno e arrivo".
La comunicazione si interruppe, ma non me ne preoccupai.
Assuntina certe volte si arrabbiava con me, ma poi le passava. Ripresi
la cornetta e feci il numero di don Pasquale. Come al solito rispose Maddalena.
A quell'ora erano tutti indaffarati per servire i clienti.
"Maddalè" dissi "non ti scordare di dire a tutti
che ho telefonato. Oggi sto ad Anzio. Domani prendo il treno e arrivo da
Assuntina".
Dopo le brevissime telefonate, precedute dalla lunga
lettura delle istruzioni, ricominciai a camminare finché non mi
lasciai alle spalle anche le ultime palazzine di Anzio. Lì potei
raggiungere di nuovo la spiaggia, mi tolsi le scarpe e proseguii sul bagnasciuga.
Presto fui quasi solo. Mi spogliai, come al solito, lasciai tutto sulla
spiaggia a due o tre metri dal bagnasciuga, entrai nell'acqua e ci rimasi
per una buona mezz'ora. Poi, come al solito, mi misi ad asciugarmi al sole.
Quando il sole mi cominciò a scottare presi tutto e mi avviai verso
l'interno per trovare un po' d'ombra. Trovai un alberello vicino a un muro.
Mi misi seduto all'ombra e consumai il mio pranzo: circa metà della
mezza ciabatta ripiena. Bevvi qualche sorso dell'acqua tiepida di Nettuno,
riposi tutto, andai a sciacquarmi in mare, feci pipì dietro al muretto,
pensando che lì ero abbastanza nascosto, mi rimisi il sacco sulle
spalle e continuai la mia marcia. La spiaggia era lunghissima, comoda e
molto frequentata per quella stagione. Sorpassai molti stabilimenti. Ogni
tanto qualche bagnante mi sorpassava correndo. Altri, correndo, mi venivano
incontro. Al tramonto, quando ormai la spiaggia appariva spopolata guardai
verso la strada e vidi parecchie case. Allora mi decisi a percorrere un
pezzo di strada per vedere dove ero arrivato. Questa volta decisi che era
ora di mettermi le scarpe nuove. Sulla strada, tornando indietro per un
centinaio di metri, un cartello mi indicò il nome del paese: Marina
di S. Lorenzo. Allora ritornai sulla spiaggia. La serata si annunciava
calda, ventilata e asciutta. Camminai sul bagnasciuga per qualche altro
chilometro. Mi fermai presso uno stabilimento che, a quell'ora, sembrava
disabitato. Ci arrivava la luce di un lampione della strada. Lì
nessun cane ebbe voglia di abbaiare, quando salii sulla pedana e trovai
una cabina aperta. Così pensai di sfruttare quel rifugio per quella
notte, ma, per il momento, nella cabina faceva troppo caldo, se chiudevo
la porta. Lasciai la porta aperta e mi sdraiai sul pavimento di legno.
Dopo un po' sentii dei passi sul legno della pedana. Prima che potessi
alzarmi, arrivò un omino che, vedendomi, si spaventò. Indietreggiò
un poco e poi gridò:
"Ahò, chi sei? Questa cabina è mia. Il
padrone la lascia aperta per me tutte le sere. Come l'hai trovata?".
"Mah" dissi, cercando di controllarmi, perché
ero spaventato anch'io "l'ho trovata aperta e ho pensato di dormirci stanotte.
Ma se è tua, me ne vado subito".
Raccolsi il sacco ed uscii.
"Aspetta" disse l'omino. Sarà stato alto non più
di un metro e cinquantacinque. Io non sono particolarmente alto, ma sicuramente
più di lui.
"Più avanti ce n'è un'altra. Ti puoi mettere
là, tanto Alfonso non c'è. Ma mi devi dare cinque euro".
"Grazie" dissi azzardando un lieve sorriso "ma cinque
euro non ce l'ho. Ne ho due".
Li tirai fuori dalla tasca.
"E in quello zaino che hai?" chiese l'omino.
"Ah" dissi "ho un pezzo di ciabatta con coppa e carciofini.
L'ho conservato per la cena. Se ne vuoi, facciamo metà per uno".
Volevo allentare la tensione. L'omino non mi ispirava
nessuna fiducia.
"Va bene, mangiamo" disse l'omino "Io ho un pezzo di
pizza con i funghi. E tu da bere che hai?".
"Da bere? Solo un po' d'acqua di Nettuno".
"Ah,ah!" rise l'omino "Quello è piscio. E va bene,
io ho un po' di vino".
Non avevo intenzione di accettare né cibo né
bevanda da quell'individuo. Perciò dissi: "No. Il vino non lo posso
bere. Me l'ha proibito il dottore. E i funghi non mi piacciono. Perciò,
buon appetito. Io me ne vado a dormire".
Lo lasciai a bocca aperta e mi avviai nella direzione
della cabina, provando le maniglie. Quando trovai quella aperta ci entrai
e rimasi in attesa tendendo l'orecchio. Sentii subito scricchiolare il
pavimento di legno e l'omino mi ragggiuse.
"E quando mi paghi la pigione?" disse guardandomi attraverso
la porta aperta.
"Domani mattina, come si fa negli alberghi" dissi "Sempre
prima di mezzogiorno".
"E quanto mi dai?".
"Come? Due euro, te l'ho detto".
"E io t'ho detto che sono pochi. Mi devi dare anche quella
mezza ciabatta coi carciofini e la coppa. E subito, che ho fame".
Aprii il sacco e lui subito lo agguantò e lo tirò
a sé per frugarci dentro. Estrasse una delle buste, quella delle
scarpe. Mi arrabbiai, gli strappai dalle mani il sacco e la busta, gli
diedi una spinta e me ne andai di corsa. Se mi avesse inseguito, non avrebbe
retto il mio passo. Sapevo di essere molto più allenato e più
sano di lui, che, sicuramente, era un ubriacone. Se avessi accettato il
suo vino - ipotesi assurda senza neppure un bicchiere di plastica pulito
- sicuramente mi avrebbe fatto ubriacare o, almeno, sarebbe riuscito a
rallentare i miei riflessi e mi avrebbe derubato. Camminai a lungo nella
notte lungo il bagnasciuga al chiarore delle onde che riflettevano la poca
luce dei lampioni della strada o quella delle stelle. Dopo circa mezz'ora
trovai un altro stabilimento deserto. Non si sentiva alcun rumore. Salii
su una pedana e mi ci distesi subito usando il sacco come guanciale. Ma
usai una delle buste di plastica come cordone per assicurare una delle
cinghie alla mia spalla. Dormii tranquillamente senza alcun disturbo, tanto
che quando mi svegliai, l'alba era già passata. Ma sulla spiaggia
non c'era alcun segno di vita. Solo in riva al mare alcuni gabbiani zampettavano
in compagnia di qualche cornacchia. Quando, dopo la consueta evacuazione
in una buca, andai a bagnarmi un po', gli uccelli volarono via sbattendo
sonoramente le ali. Mi preparai subito a proseguire il mio viaggio che
ormai, pensavo, quel giorno, sarebbe giunto al suo termine. Mi sentivo
allegro e leggero, anche se l'incontro dell'omino della sera precedente
mi aveva dato un po' di preoccupazione. Meno male che era solo un omino
debole. Pensai che, in certe occasioni, un'arma, una pistola potrebbe servire.
Ma a me nessun commissariato darebbe un porto d'armi. E perciò,
la sera che incontro un omone invece di un omino, può anche darsi
che ci rimetto la pelle.
Ma dopo, sì e no, un'ora di cammino, fui assalito
da una certa debolezza. Eh, sì, avevo proprio fame. La metà
della mezza ciabatta con i carciofini e la coppa era ancora nel mio sacco,
ma, a quell'ora, non mi attirava. Ormai, sulla strada, si poteva incontrare
un bar aperto. Così uscii sulla strada e mi misi le scarpe nuove.
Guardai da una parte e dall'altra, ma vidi solo boscaglia e dune di sabbia.
In lontananza, in direzione contraria alla mia, vidi un uomo in piedi vicino
a un autobus. Se volevo sapere qualcosa dovevo raggiungerlo, e quindi ci
andai a passo svelto. Aveva la divisa da conducente. Gli chiesi di un bar
e lui mi disse che, forse, ce n'era uno al Borgo S. Rita, alla prima traversa,
a circa un chilometro di distanza. Un chilometro, per me, è una
passeggiata. Ci andai quasi di corsa. Era vero, il bar c'era, ma era ancora
chiuso. C'era un uomo seduto ad un tavolino vicino alla serranda chiusa.
Mi disse che il bar, la domenica, era chiuso. Gli chiesi se ce n'era un
altro da quelle parti.
"A Pratica di mare o a Pomezia, a tre o quattro chilometri".
Non avevo scelta: dovevo raggiungere il bar più vicino. In mezz'ora
arrivai a Pomezia e là, finalmente potei sfamarmi con due cornetti
e un caffelatte. Spesi quasi tre euro. Mi feci anche riempire la bottiglia
di acqua potabile. Nella piazza principale c'era un'edicola di giornali.
Mi fermai un momento a leggere qualche titolo dei giornali esposti. Gli
argomenti erano i soliti: i tuiristi dispersi dello tsunami, gli attentati
suicidi in Iraq, l'aumento del petrolio, la crisi europea. Tornai verso
il mare e, raggiunta la strada costiera, la percorsi per un po' guardando
le dune di qua e di là. Incontrai diverse fermate di autobus, ma
nessun autobus passava. Di macchine se ne videro una o due. Finalmente
trovai un altro autobus fermo e il suo conducente. Domandai se potevo pagare
il biglietto sull'autobus, ma era come a Gaeta: si doveva comprare in tabaccheria
o da qualche giornalaio. Se ci pensavo prima, lo compravo a Pomezia. Allora
continuai un po' a piedi e subito vidi un cancello chiuso sul lato del
mare con un numero a fianco: il numero 9. Avevo già sentito parlare
di questi cancelli che c'erano, vicino a Ostia, da cui si accedeva a grandi
e belle spiagge molto bene organizzate. A quel punto capii di essere quasi
arrivato a Ostia. A fianco al cancello c'era un varco da cui si poteva
passare. Naturalmente ci andai, mi tolsi ancora le scarpe e proseguii sul
bagnasciuga. Sulla spiaggia c'erano moltissime costruzioni in muratura,
lunghe e basse, ma tutte chiuse. Vicino al cancello successivo vidi una
cabina telefonica. Andai subito a vedere. Sembrava in funzione. Rilessi
le istruzioni, uguali a quelle del giorno prima, e telefonai ad Assuntina.
Mi rispose la sorella. Le dissi che ero vicino a Ostia e che sarei arrivato
in giornata. Lei disse che avrebbe riferito.
"Ma Assuntina è uscita?" domandai.
"Sì".
"E come mai? Non doveva rimanere in casa per non respirare
il polline?".
"Siccome qui è piovuto per due giorni di seguito,
adesso, almeno per qualche giorno, può uscire".
"Va bene. Ritelefono quando arrivo a Ostia".
Ripresi la mia marcia. Poi mi venne voglia di bagnarmi.
Non c'era nessuno sulla spiaggia. Feci il mio bagno di mezz'ora e mi asciugai
al sole per un'altra mezz'ora. Poi andai all'ombra sotto a una stuoia mezza
rotta, appesa a un sostegno di ferro e, finalmente, mangiai l'ultimo pezzo
di ciabatta avanzata dal giorno prima. Quando mi fui riposato, controllai
la mia roba e mi accorsi di non avere in tasca la scheda telefonica. L'avevo
dimenticata nella fessura del telefono. Dovevo tornare indietro a cercarla.
Ci arrivai in una mezz'ora e, per fortuna, la trovai nella fessura. Ritelefonai
e questa volta mi rispose Assuntina.
"Totò, sei a Ostia?".
"No. Sono al telefono di prima, ai cancelli, perché
mi ero dimenticato la schedina nel buco del telefono".
"Ah, ma sei un capoccione! Scommetto che, per riprenderla,
sei tornato indietro".
"Sì, certo. Se no come ti chiamavo?".
"Va bene non ti muovere da lì, che ti vengo a
prendere. A quale numero di cancello stai?".
"Dovrebbe essere il numero 8. Ma adesso torno verso il
numero 1. Ci possiamo incontrare lì".
"E figuriamoci se tu riesci a stare un pochino fermo!
Va bene, quando arrivi al numero 1 fermati lì e aspettami. Per me,
con la macchina ci vorrà una mezz'oretta".
Saranno state le tre o le quattro del pomeriggio.
Quasi di corsa, sul bagnasciuga, arrivai al cancello
1 in un quarto d'ora. Mi misi all'ombra di un cespuglio ad aspettare, seduto
su un blocco di tufo. Sul cespuglio c'erano dei fiori bianchi. Sembravano
rose selvatiche. Sentii un verso rauco, una specie di cigolio come di un
cardine arrugginito. Mi ricordai di averlo già sentito e che mi
era stato spiegato che fosse il verso di un fagiano. Proveniva dalla parte
opposta della strada. Mi alzai per vedere e lo vidi subito. Doveva essere
una femmina, perché aveva la coda corta. Se ne andava beccando di
qua e di là sulla duna.
Aspettai, forse, due o tre ore. Assuntina non arrivò.
Allora trovai un varco e uscii nella strada. Non si vedeva
nessuna macchina. Cominciai a preoccuparmi. Ero indeciso. Alla fine scelsi
di proseguire per la strada, con le scarpe nuove, verso Ostia. Se fosse
passata mi avrebbe visto. Sicuramente mi avrebbe riconosciuto. Passò
qualche macchina, mentre camminavo, ma non si fermò. Finalmente,
al tramonto, arrivai a una piazzetta con una fermata di autobus e una cabina
telefonica. Questa volta non rilessi le istruzioni. Feci il numero, aspettai
circa venti squilli, ma nessuno rispose. Ritentai una seconda volta senza
successo.
Ripresi la marcia verso Ostia. Passai davanti a diversi
stabilimenti balneari, tutti chiusi. Alla fine raggiunsi un gran piazzale
illuminato da un enorme lampione, con una lunga balaustra a semicerchio
sul mare. Ormai era sera inoltrata. Mi sentivo stanchissimo e infelice.
C'era qualcuno a guardare dalla balaustra, ma nessuna cabina telefonica.
Chiesi a qualcuno quanto mancava a Ostia. Mi dissero che il centro di Ostia
stava a non più di cinque chilometri. Allora cercai un varco per
tornare sulla spiaggia, ma camminai per almeno due chilometri, senza trovarlo.
C'erano solo stabilimenti chiusi, senza nessun passaggio per la riva del
mare. Non credo che sia una cosa legale. Finalmente, dall'altra parte della
strada vidi una cabina telefonica. Andai anche lì a telefonare,
ma ancora non ebbi risposta. Allora, per quella notte, mi rassegnai e mi
inoltrai per le strade di Ostia. Ormai quasi tutti dormivano. Alla fine
tornai verso il mare e potei raggiungere la spiaggia, scavalcando una balaustra e passando sotto a un pontile.
Ora sono qui, al buio, cammino avanti e indietro e sono
quasi disperato. Forse domani riuscirò a parlare con qualcuno e
saprò che cosa è successo. Ma le ipotesi possibili non sono
tantissime.
|