Il racconto del granchio 
(Estate 2005)
Rubrica di ciò che il granchio pensa e scrive nel suo buco-giardino.

Italiano.........Inglese

Andando a piedi lungo la spiaggia (1)

Mi chiamo Antonio Baldascione, ho cinquant'anni suonati, un bel paio di baffi neri e sono nato a Catanzaro, ma da che mi ricordo vivo a Gaeta. Anzi, vivevo a Gaeta fino a cinque giorni fa. Ora non so bene dove sono. E' notte. Sono in riva al mare, aspetto l'alba e continuo a camminare.
Che è successo cinque giorni fa? Un momento, voglio rispondere prima a un'altra domanda: che ci facevo a Gaeta e come vivevo?
Pescavo cozze, telline e vongole e, ogni tanto, qualche polpo, quand'era stagione. Con ami, lenze e rezze non mi ci trovo. Stare ad aspettare sopra gli scogli, lo posso fare un po' con i polpi, ma non con i pesci, che non s'allamano mai. A me piace camminare di qua e di là, sulla rena e anche sopra gli scogli se sono lisci. Le telline e le vongole sono faticose. Si deve andare all'alba, affondare il retino nella rena e tirare finché il sacco del retino si riempie di molluschi. Per le cozze bisogna tuffarsi dove crescono e strapparle dagli scogli, ma sono sempre più rare.
In paese mi conoscono tutti. I frutti di mare e i polpi li ho portati sempre a don Pasquale che, in cambio, mi fa mangiare ogni giorno. Di mia madre e mio padre non so niente, e nessuno ne sa niente in paese. All'anagrafe c'è scritto solo che sono nato a Catanzaro il 7 luglio del 1954.
Abito nel vicolo della Marina al numero 9, un bel locale ampio che i signori Loffredi mi affittano gratis. Abbiamo fatto tanto di contratto, non so perché, con una pigione mensile pattuita, che poi siamo d'accordo che non devo pagare. Non c'è vista sul mare e neppure sulla terra, ma, quando apro la porta, entra una luce accecante, perché il sole entra nel vicolo a mezzogiorno e se ne va alle due, ma, nelle altre ore del giorno la luce va dove vuole, sbattendo qua e là sulle facciate chiare, e l'aria è profumata di limoni. Per grazia di Dio, nel vicolo le macchine non possono entrare, neppure volendo: ci sono le scale! E che giardini, che fiori! E, quand'è la stagione dei turisti, che belle ragazze passano di qua! E qualcuna si ferma pure a parlare con me, e vuole sapere la mia storia, e allora qualcosa mi devo inventare: posso mai dirgli che sono senza né padre né madre e senza fissa dimora?...
Senza fissa dimora forse no, perché sono molti anni che abito in questo posto. Quanti anni, non mi ricordo più.
Ma ci si deve vergognare di queste condizioni, anche se ce ne sono altri come me da queste parti: c'è Enzo, Vannuccio, Poldino, tutti e' tre pescatori come me; Antonio Lovascio, invece, fa il mondezzaio, e Robertino fa il guardaportone al Comune.
Cinque giorni fa incontro Michele Abbutino, ex carabiniere in pensione, che, come fa sempre, mi fa: "Nè, Antò, ancora qua stai? Ma quand'è che ti trovi un lavoro dignitoso e te ne vai?".
"Ma perché, vi dò fastidio?" faccio io.
" E già, tu non hai nemmeno la quinta elementare! Dove vuoi andare?".
"Ma che andate dicendo? Io non solo ho fatto le elementari, ma anche le scuole medie. Me lo ricordo bene!".
"E meno male! Mo' hai fatto le scuole medie! E dove sta scritto?".
E se ne scende muro muro fino al porto, come fa tutti i giorni.
Dio, com'è scocciante questo Abbutino. Gli darei una spinta e lo farei rotolare per tutte le scale.
"Antò, che fai? Oggi non porti niente a don Pasquale?" mi grida la signora Rosina dal balcone. E' tardi, sono già le nove. Ormai non pesco più niente. "Vado, vado" rispondo e comincio a scendere.
Quella mattina mi ero svegliato tardi e male. Avevo fatto un brutto sogno. Se mi alzavo prima andavo a pescare qualche vongola, e il maresciallo Abbutino non lo incontravo. La signora Rosina, in fondo, mi vuole bene. Due giorni prima mi aveva dato un materasso nuovo nuovo che profumava di lavanda: ci aveva dormito lei per cinque o sei anni. Leggera com'è non lo aveva consumato. E quello vecchio lo avevamo subito bruciato, di notte, sulla piazzetta, davanti al campanile del duomo.
Quando arrivai alla piazza coi giardini sul porto, subito mi vide Angelino, quello della capannina, che vende gelati, granite e limonate.
"Antò" gridò con la sua voce squillante "se prendi le cozze portamele. M'è venuta voglia. Me le voglio fare stasera".
"E' tardi, Angelì. Mi sono alzato tardi. Ormai i turisti stanno dappertutto".
Andai subito da don Pasquale a salutarlo. Il suo ristorante, molto apprezzato da turisti e locali, sta lì vicino, a due passi, in un vicolo, sotto da una bella pergola messa apposta per rinfrescare quelli che vengono a mangiare.
"Nè Antò, sei già qui?" mi fa don Pasquale.
"Vi chiedo scusa, don Pasquà, ma oggi mi sono alzato tardi".
"E che è? La sveglia che ti ho dato l'anno scorso non funziona più?".
"Don Pasquà, la sveglia è un pezzo che non la metto più, perché la notte normalmente mi sveglio molto prima dell'alba. Ma stamattina, non so perché, non mi sono svegliato. Forse sono un poco malato. Vallo a sapere".
Don Pasquale ha sessant'anni e una bella pancia sotto al grembiule bianco. E' come un padre per me. Mi mise una mano sulla spalla e, guardandomi negli occhi, mi disse: "Veramente mi sembri un poco stanco, come se non avessi dormito bene". Poi, spingendomi a sedere sulla sedia di paglia sotto la pergola, mi fece una rapida visita, perché lui è anche un po' dottore. Mi abbassò una palpebra sotto l'occhio per vedere la parte inferiore della palla e poi mi tastò la vena del polso con le quattro dita.
"Antò" poi disse "l'occhio è bianco. Lo sai. L'uomo è come il pesce. Se l'occhio è vivo il pesce è fresco, se sotto l'occhio la palla è bianca l'uomo sta bene. Se c'è un poco di giallo, può avere qualche disturbo epatico o può solo aver fatto indigestione. Ma tu non hai dormito bene. Hai le occhiaie".
"Don Pasquà, e come posso fare indigestione, con quello che voi mi date da mangiare. Tutti qui sanno che tutto quello che voi date da mangiare è genuino. E anche le cozze o le vongole che vi porto io sono appena uscite dall'acqua più pulita di Gaeta".
"Terè" gridò verso la sala buia "porta una limonata a Antonio".
Poi, rivolto a me: "Ti sto dicendo che hai fatto indigestione? T'ho detto che hai l'occhio bianco! Io dico solo che non hai dormito, stanotte".
"E se non avevo dormito, come facevo a svegliarmi tardi?... Va bene, don Pasquale, avete ragione: non ho dormito bene, e con quel poco che ho dormito, ho fatto un brutto sogno".
"Ah! Hai visto? E non ti preoccupare. I brutti sogni sono curativi quanto e più dei sogni belli. Può darsi che qualche altra notte fai qualche altro brutto sogno, ma poi ricominci a sognare di volare sopra a tutti i palazzi e alla fortezza, come hai sempre fatto".
Rientrò diretto in cucina mentre ancora sorrideva soddisfatto. Ma io non mi sentivo contento. La signora Teresa arrivò dopo un minuto a portarmi la limonata. Si sedette anche lei sotto la pergola.
"Antò, ho sentito che hai fatto un brutto sogno, Raccontamelo subito, prima che te lo scordi. Se ci sono i numeri ce li giochiamo".
"Non mi sento di giocare, donna Terè. E' stato veramente brutto... Vi ricordate Assuntina, la signora che stava con me l'anno scorso... Ho sognato di vederla morta". Ero così emozionato che una lacrima mi scese sulla barba che, quella mattina, non mi ero tagliato. Me l'asciugai subito col dorso della mano.
"Uh, quello piange!" gridò Teresa "Ma che piangi a fare? E' un sogno, non è realtà".
"Lo so, lo so. Ma io mi ci ero affezionato. Sapete, quella aveva detto che quest'anno sarebbe tornata, ma fino ad oggi non s'è vista".
"Ma quante volte t'ha telefonato? Almeno dieci, venti volte...".
"Io ci ho parlato due, tre volte in tutto. E tutto quello che sapevo dire era: come stai? Stai bene? Anch'io. Mai niente di più. Tutto quello che le volevo dire mi veniva dopo che avevamo attaccato il telefono. Glie lo dicevo nei sogni che facevo la notte. Ma la volta dopo che riuscivo a parlarci per telefono, m'ero scordato tutto. E adesso, forse, non posso più parlare con lei".
"I numeri. I numeri" gridò Teresa "Maddalè, porta il libro dei numeri. Ah già quella è andata a fare la spesa". Andò di corsa verso la cucina.
Don Pasquale tornò col coltellaccio in mano.
"Antò, ho sentito tutto dalla cucina. Ma non devi abbatterti. E' solo un sogno...".
"E si sa, la vostra cucina ha l'acustica di un teatro. Ma voi non l'avete vista. Io sì. Era stesa in terra, sulla montagna. In faccia era tutta bianca, ma il corpo era insanguinato. Io ero corso sulla montagna. Forse era monte Orlando. Ma non ho fatto in tempo. Ho visto gli orsi che se ne andavano".
"E già, monte Orlando! Lo sai che là c'è solo qualche cornacchia e tante farfalle. Anzi, io stavo proprio pensando di mandartici, oggi, a riposarti. Lassù si respira bene, non c'è traffico. Ti preparo una pagnotta con prosciutto e insalata. Così puoi starci tutto il giorno".
L'allegria di don Pasquale era contagiosa. Sorrisi anch'io.
"Don Pasquà, voi mi viziate sempre. Sapete quanto poco vi posso ripagare, con le poche cozze e vongole che vi porto...".
In quel momento tornò Maddalena, la figlia di don Pasquale e della signora Teresa, con due borse di plastica piene.
"Antò, lo sai chi ha telefonato ieri sera?" disse Maddalena.
"Come, Maddalè, telefona qualcuno per Antonio e non ci dici niente?" la rimproverò don Pasquale.
"Eh, m'era passato di mente, con tutto quello che avevo da fare".
"Eh, lo so io quello che avevi da fare. Picceré, statt'accorta a dove vai la sera...".
"E dove vado? Dove vanno tutti, la sera. In piazza, a prendere un po' di fresco dopo la giornata di fatica. Ieri sono andata con Sabrina e Annuccia... Ma lo volete sapere o non lo volete sapere chi ha telefonato per Antonio?".
Don Pasquale non poté trattenere la sua risata sonora.
"Qui c'è una sola persona che telefona per Antonio" disse guardandomi negli occhi e ridendo "e che ha detto?".
"Tanti saluti a tutti. E per questo mese non si può muovere da Roma".
"E quando si può muovere?" chiesi con ansia.
"Questo non lo ha detto".
"Ma ha detto perché?"
"No".

Rimasi a pensare. Il brutto sogno mi tornava in mente. Non avevo mai telefonato ad Assuntina, anche se lei mi aveva dato il numero. Con quali soldi potevo telefonare? Io non so nemmeno come è fatto un euro. Una volta ho trovato una moneta nel sacco delle telline, ma era una moneta antica, non si sa se borbonica o addirittura romana. Don Pasquale l'ha messa sul cornicione del camino, e ogni tanto qualche turista la prende per guardarla, ma nessuno la sa riconoscere.
Don Pasquale tornò con la pagnotta che aveva preparato. Mi guardò negli occhi e capì.
"Sù, Antò, vai a telefonare. Fatti fare il numero da Maddalena".
Rimasi un po' a guardarlo a bocca aperta. Poi mi alzai e andai. Presi il telefono e feci io il numero. Avevo imparato guardando gli altri. Non so perché, tutti pensano che non conosco nemmeno i numeri.
Assuntina rispose dopo parecchi squilli.
"Assuntì, sono io, Antonio".
"Che sorpresa! E come hai fatto?".
"Don Pasquale mi ha dato il permesso".
"Va bene, ringrazialo".
"Don Pasquà, Assuntina vi ringrazia" gridai.
"Ehi, non strillare così forte, che m'insordisci".
"Scusa, scusa, Assuntì. Sapessi come mi dispiace che non puoi venire".
"Forse vengo il prossimo mese. Adesso c'è ancora troppo polline in giro e io sono allergica".
"Ah, questo non lo sapevo".
"Sì, Totò, sono allergica da parecchi anni. Ma quest'anno, pare che mi sono aggravata. Il dottore ha detto che devo stare chiusa in casa per tutto maggio e forse anche per i primi giorni di giugno. Se piove, un giorno o due, poi posso uscire".
"Ma come fai a stare chiusa in casa? E il tuo lavoro? E la spesa chi la fa?".
"La spesa me la fa mia madre o mia sorella. Al lavoro, quest'anno mi assento per due mesi: uno di malattia e uno di vacanze".
"Ah, e ti pagano lo stesso?".
"E' ovvio. Senti, perché non vieni tu? Qualche soldo ce l'hai? Poi ti ospito io. Abbiamo tutto qui".
"Mah, non lo so. Vediamo...Stanotte ho fatto un brutto sogno...".
"Un brutto sogno? Raccontamelo, dài".
"No, è meglio di no. Non ci voglio pensare. Adesso devo andare sul monte Orlando. Don Pasquale mi ci vuole mandare per forza. Mi ha preparato una pagnotta così grande che mi basterebbe per tre giorni".
"E che ci vai a fare sul monte Orlando? Non avrai un'altra donna? Guai a te".
"Assuntì, che dici. Tu lo sai che sei l'unica donna della vita mia".
"Dài, vieni a Roma col treno, solo per qualche giorno. Staremo bene. Ti faccio giocare col computer".
"Assù, tu lo sai che don Pasquale ha bisogno dei frutti di mare".
"No! Con questo caldo i frutti di mare fanno male! E poi se ti manda sul monte Orlando ti può mandare anche a Roma per qualche giorno".
Don Pasquale stava lì ad ascoltare.
"Lascia stare i frutti di mare" intervenne "Con questo caldo nessuno li vuole".
"Fammici pensare" dissi al telefono "I soldi li dovrei chiedere a don Pasquale" dissi guardando lui negli occhi.
"Va bene, pensaci. Ma fammi sapere quando arrivi che mando mia sorella a prenderti alla stazione".
"Va bene. Cerca di stare bene e tieni tutto chiuso, per non fare entrare questi pollini".
"Daccordo, ciao. A presto".
"Ciao".
Non avevo mai parlato tanto al telefono. Don Pasquale mi guardava per cercare di capire che voleva Assuntina e perché ci volevano dei soldi.
Io non dissi niente. Presi la busta di plastica con la pagnotta e la bottiglia di plastica con l'acqua, e mi avviai.
"Antò, hai bisogno di soldi?"
"No, don Pasquà, che ci faccio io coi soldi? Con questa pagnotta posso campare anche quattro giorni" dissi ridendo.
Ma don Pasquale mi corse dietro e mi mise cinque banconote nella tasca dei calzoni. Quel giorno avevo quelli lunghi blu. Quelli corti li avevo lavati il giorno prima e li avevo stesi ad asciugare. Presi i soldi e li contai. Erano cinque banconote rosa da 10 euro. Guardai in faccia don Pasquale e quasi mi venne da piangere. Me li rimisi in tasca e me ne andai.
Uno come me, che non ha mai toccato un euro con un dito, e lui lo sa, che ne può fare di cinquanta euro?
In cima a monte Orlando ci arrivai presto, ma non ci si respirava così bene. Dentro di me volevo accertarmi che non ci fosse traccia di quei bestioni feroci che, nel mio sogno, avevano ammazzato Assuntina. Invece vidi solo qualche volo di cornacchia, una camionetta di soldati che, passando, appestò tutta l'aria con la puzza di nafta, e qualche farfalla. Da certe parti più folte del bosco venivano fischi e gorgheggi di merli. Dal belvedere, sotto la statua della Madonna, vidi la fortezza, le navi, il traffico del lungomare e, più lontano, la spiaggia bianca con qualche corpo umano piccolo piccolo steso al sole. Quante volte ho percorso quella spiaggia a piedi. Quante volte sono sceso nell'acqua per riempire di vongole veraci il mio retino. Fu guardando da lassù quella spiaggia che mi venne l'idea. Che prendo a fare il treno? Per sprecare soldi? Ci vado a piedi.

Tornai in paese quasi di corsa. Passai da casa per prendere lo zainetto. Ci misi dentro il coltello a serramanico, il cappello bianco, una camicia, due costumi da bagno, i pantaloni corti, la giacca a vento, lo spazzolino, il dentifricio, un asciugamano, un pezzo di sapone, un rasoio bilame 'usa e getta' già usato almeno dieci volte e tre buste di plastica. Per sicurezza ci misi anche la polpara. Il retino no, dove lo mettevo? Poi, con lo zaino e la busta di plastica già pronta con le cibarie, scesi al ristorante. Salutai don Pasquale e la signora Teresa. Maddalena era uscita di nuovo per vedere se al mercato c'era già qualche melone buono, che adesso vengono da tutto il mondo e costano poco. Dissi che avrei preso il treno per Roma e sarei stato con Assuntina per tre o quattro giorni. Don Pasquale mi diede altri quaranta euro.
"Di più non te ne posso dare, che domani devo pagare la pigione. Se hai bisogno ti faccio un vaglia postale".
La signora Teresa mi diede un pezzo di carta con il numero di telefono del ristorante. Me lo misi in tasca, li baciai, dissi di salutare Maddalena e me ne andai, pensando che se non avevo quel padre e quella madre putativi quella volta potevo morire disperato.
Al porto girai a destra e mi avviai verso la spiaggia bianca, lunghissima, piena di bagnanti. Questa arriva di sicuro fino a Ostia, pensai. Mi tolsi le scarpe di pezza blu, le misi in una busta di plastica e proseguii sul bagnasciuga guardando di qua e di là: la gente che stava stesa a prendere il sole o all'ombra degli ombrelloni, i ragazzi che giocavano a pallone, i bambini che scavavano con la paletta nella rena, i bagnini seduti vicino al moscone rosso a guardare continuamente il mare, sempre con pochi nuotatori, e a rispondere alle ragazze che li guardavano - e qualcuna gli accarezzava il petto villoso - senza nemmeno guardarle in faccia. Dall'altra parte c'era il mare, il mio mare, che vedo quasi ogni giorno, a strisce bianche, verdi e blu, qualche volta rosa, qualche volta viola, a quell'ora pieno di scintille accecanti. Lontano lontano due vele bianche, una nave e un motoscafo che s'avvicinava a tutta velocità. C'era pure il cielo azzurrissimo, con due o tre nuvolette e una striscia di aeroplano a reazione. E c'era la solita brezza, non tanto fresca a quell'ora. Che potevano essere? Le undici.
Quando arrivai sotto la torre poteva essere la mezza. La conoscevo bene quella torre. C'ero passato tante volte mentre raccoglievo le telline. Lì mi fermavo, mi tuffavo e trovavo quasi certamente le cozze sotto gli scogli in certi posti che solo io conosco. Non avevo ancora fame. Andai avanti ancora per un bel po'. Prima di mangiare mi voglio fare un bagno, pensai. Ma dovetti uscire dalla spiaggia e andare sulla strada, perché c'erano troppi scogli a picco sul mare. Le macchine puzzolenti e rumorose andavano velocissime. Io mi tenevo accosto ai cespugli, dove potevo. In certi punti c'era solo l'asfalto. Allora passavo di corsa quando non passava nessuna macchina. Finalmente, dopo tre o quattro chilometri, c'era un viottolo che rientrava alla spiaggia. Su un cartello c'era scritto: "Torre Capovento". Fino a qui a piedi non c'ero mai arrivato. C'ero passato due o tre volte con Poldino sul motorino, per andare a pescare più a nord, sotto Sperlonga: lui con la lenza, io con la polpara e il retino. Il traffico delle auto s'era un po' calmato. Scesi verso la spiaggia, ma trovai solo scogli e cespugli. Allora mi misi sotto a un cespuglio di mirto, all'ombra, e mi misi a mangiare. Una gatta sentì subito l'odore del prosciutto e venne a vedere e a miagolare. Doveva avere i suoi gattini da sfamare. Presi dalla pagnotta una bella fetta grassa e glie la misi su una zolla d'erba. L'inghiottì in un solo boccone. Vidi se potevo dargli qualche altro pezzo. Gli diedi solo il grasso. Quando finii, incartai il resto della pagnotta, più di metà, e lo rimisi nella busta. La gatta capì che se ne doveva andare. Bevvi un po' d'acqua e mi rimisi in cammino. Dovetti superare parecchie dune cespugliose prima di ritrovare la spiaggia sabbiosa. Ma durò poco. Non c'era nessun bagnante a quell'ora. Dopo non più di mezz'ora dovetti tornare sulla strada e vidi diversi cartelli: uno indicava le grotte di Tiberio, un altro la villa di Tiberio e un altro Sperlonga.
Pensai di andare a trovare Salvatore, il pescatore che abita a Sperlonga, e proprio mentre ci pensavo, sentii la sua voce che mi chiamava da una macchina verde che si fermò venti metri più avanti.
"Antò, che fai qui a quest'ora? Dove vai?".
"Eh, vado... a Chiancarelle... mi aspettano per stasera. Ma stavo proprio pensando di venirti a trovare".
"Cacchio, ma tu vai sempre a piedi, anche se, mettiamo il caso, dovessi andare a Roma?".
"Beh, non esageriamo..." mentii.
Qualche macchina riusciva a superare. Ma molte altre si erano messe in coda e cominciavano a strombazzare.
"Sali, che ti porto io per un pezzo" disse aprendo lo sportello di destra.
Salii e mi sedetti. Mi tolsi lo zaino, in cui avevo messo tutte le buste che avevo, e lo appoggiai sul pavimento della macchina tra le mie gambe. Veramente mi faceva un po' schifo, perché tutta la macchina era piena di polvere e puzzava di pesce".
"Salvatò, che hai preso, qualche murena? Qualche gronco. Qui si sente una puzza...".
"Seh, murene, gronchi? Ho pescato sotto la grotta due saraghi da più di un chilo l'uno! Se vieni a casa mia, invece di andare a Chiancarelle, ce li mangiamo stasera, con l'insalata e le cipolle dell'orto mio, che poi ti lecchi quei baffi da micione che hai".
L'idea dei saraghi con le cipolle mi fece dimenticare di colpo la puzza che c'era dentro quella macchina. Mi cominciai subito a leccare i baffi. Erano salati.
"E come faccio? Quelli mi aspettano...".
"Ma quelli, chi?".
"Eh... c'è Poldino e l'altro pescatore... come si chiama?...".
"Beh, andiamo a casa, che ci prendiamo almeno un bicchiere di vino rosatello fresco fresco. Poi ci pensiamo".
Ormai ero deciso ad accettare tutto. Volevo solo scendere al più presto possibile da quella carretta che puzzava, con tutta l'aria che entrava da tutte le parti".
Salvatore è più giovane di me. Avrà quarantacinque, quarantasei anni. E ha anche una moglie bella e simpatica, di trentasette, trentotto anni.
Arrivammo al suo orto in dieci minuti. Andammo subito a lavarci alla fontana in mezzo a due ulivi che facevano da sostegni a una vite grossa come un braccio. Salvatore portò i due saraghi sollevandoli in alto e simulando uno sforzo esagerato come se pesassero chi sa quanto. Tra due rami dell'ulivo di destra c'era appoggiata la forbice che Salvatore usava sempre per pulire i pesci. Aprendo il rubinetto, subito si sentiva il rumore della pompa che pescava l'acqua dal pozzo. Prima che cominciasse la pulizia dei pesci, gli diedi una spinta e mi misi a sciacquarmi le mani e la faccia. Avevo camminato per parecchie ore, fino a quel momento. La mia pelle e la mia barba erano arse e intrise di salsedine. Dovevano essere le cinque o le sei. D'estate non s'indovina bene l'ora. In quei giorni doveva essere primavera, ma il caldo era quello dell'estate. E le giornate erano già belle lunghe.
Dalla catapecchia, fatta con bei blocchetti di tufo, ma coperta di plastica trasparente ondulata, uscì Valentina, la moglie di Salvatore. Era un fiore. Salvatore lo sapeva che a me piaceva e ci scherzava, ma sapeva anche che non avrei mai osato nemmeno sfiorarla con un dito, a parte i saluti di benvenuto e di commiato. E difatti Valentina mi corse incontro ridendo e baciò senza ritegno le mie gote ancora bagnate e ispide. Ed io la ricambiai timidamente, senza toccarla con le mani bagnate.
"Valentì, prendi tre bicchieri, che andiamo in cantina a farci un goccetto di quello che sai, fresco fresco. A quest'ora, col caldo che fa, è proprio quello che ci vuole".
"Salvatò, bello mio, ma quando li hai presi quei bestioni? Li hai pesati? Ce li mangiamo con Tonino?".
"Poi vediamo, Valentì, bella mia, quello, Tonino, deve andare non si sa dove".
Ci avviammo verso la cantina, dietro la casa. Ma prima Valentina entrò in casa e tornò con i tre bicchieri che servivano. I pesci avrebbero aspettato sul fondo della vasca, prima di essere pesati e puliti. Forse si sarebbero riempiti di mosche. Lo zaino me lo stavo portando in cantina, quando Valentina lo vide, me lo tolse e lo gettò su una zona erbosa davanti alla casa.
"Venite, venite, adesso accendo la luce. Ecco, Tonì, guarda che belle botti. Vieni, Valentì, bella mia. Riempiamo i bicchieri".
Io rimasi in piedi dietro i due 'belli' che si accucciavano per riempire i bicchieri. Dalle cannelle uscì un liquido rosa, spumeggiante e profumatissimo. Non li lasciarono traboccare e, quando si alzarono, la spuma, dissolvendosi, lasciò tre bicchieri riempiti a metà. Presi il mio dalla bella mano ambrata di Valentina e assaggiai, mentre loro aspettavano il mio giudizio. Era freschissimo e di un sapore mai sentito, delizioso. Mi esaltai e volli scherzare.
"Salvatò, questo vinello è un fiore, come Valentina".
Subito la risata squillante della bella donna echeggiò nella cantina.
E salvatore, guardandomi negli occhi disse: "Valentina è un fiore sgargiante che non sfiorisce mai. Ma solo per me". E poi si mise a ridere anche lui.
"Effettivamente in questo vino" aggiunse "c'è qualcosa di Valentina: i piedi. Ma anche i miei. Ti ricordi, Valentì, bella mia, come ci divertimmo a ottobre nella vasca dell'uva?".
Al ricordo non poterono trattenersi, e si abbracciarono e baciarono a lungo sotto i miei occhi. Io finii il mio vino e mi sedetti in terra. La stanchezza della lunga camminata mi assalì in quel momento. Camminare sulla rena, a piedi scalzi, per chilometri e chilometri, anche senza retino, è un'impresa faticosa. Mi venne anche un po' di sonno e chiusi gli occhi. Non pensavo più nemmeno ad Assuntina.
Quando i due amanti si slacciarono, "Tonì, che fai?" dissero in coro.
E Valentina: "Ueh, quello dorme! Che ha?". Ma io subito aprii gli occhi e sorrisi.
"Non dormo, non dormo. Aspettavo i vostri comodi. Ma m'è venuta la stanchezza tutta insieme. E' tutto il giorno che cammino".
"E se non ti fermavo io, ancora stavi a camminare" disse Salvatore.
"Sapete che faccio?" dissi "Adesso telefono a don Pasquale di mandare a cercare Poldino e di dirgli che a Chiancarelle non ci vado. Perché quei saraghi mi fanno gola e per voi sono troppi. Ah, ma voi avete il telefono?".
"E come, non ce l'abbiamo?" disse Valentina. Mi accompagnò in cucina, dove stava il telefono. Intanto Salvatore andò a pesare e a pulire i saraghi giganti.
Quando al telefono rispose Maddalena, le dissi: "Maddalè, dì che stasera mi sono fermato da Salvatore e che quindi lì ci vado domani o dopodomani. Ciao".
Così a Valentina non feci capire niente. Di solito non dico bugie e non nascondo niente, ma potevo mai far capire che non dovevo andare a Chiancarelle, ma a Roma?
Intanto Valentina era uscita a vedere la pulizia dei pesci, e io feci un'altra telefonata: ad Assuntina. Le dissi che contavo di andare domani o dopodomani e che avrei ritelefonato. Uscii anch'io per lo spettacolo della pulizia. Quando arrivai era già tutto pronto.
"Tonì, guarda qua" disse Salvatore "Questo pesa sette etti senza viscere, e quest'altro otto".
Il barbecue era qualche metro più in là. Salvatore ci mise qualche tralcio di vite secco e qualche pezzo di ulivo preso da una catasta accumulata alla potatura di febbraio o marzo. Ci spruzzò anche un po' di spirito e poi l'accese con un accendino. Si alzò una bella fiammata di breve durata, ma sufficiente ad avviare un bel fuoco che avrebbe ridotto in brace tutta la legna sistemata nel barbecue in una mezz'oretta. I pesci, sviscerati, attendevano di nuovo in fondo alla vasca. Valentina andò a prendere in cucina il sale e l'olio, mentre Salvatore raccoglieva dall'orto due o tre rametti di rosmarino e li legava con un filo di paglia robusto. Io vidi, in fondo all'orto un albero di limoni con fiori e frutti copiosi e, senza chiedere il permesso, andai a staccare due limoni, tanto lo sapevo che in quell'orto si faceva così. Salvatore approvò con un cenno e appoggiato il rosmarino su un ripiano di ferro sotto al barbecue, andò, con le forbici, a raccogliere qualche foglia di prezzemolo e qualche ciuffo di insalatina fresca e tenerissima. Mi piaceva la vita che facevano quei due. Spesso Salvatore vendeva i pesci ai ristoranti di Sperlonga e così riusciva a campare e a coltivare l'orto con l'aiuto di Valentina. Ah, se avessi avuto anch'io un terreno così e una casetta dove andare a vivere con Assuntina...
Negli ultimi tempi, l'invidia, che prima non conoscevo, ogni tanto mi entrava nel cervello e mi faceva soffrire. E non era invidia solo per quella coppia beata. Si può benissimo invidiare qualcuno anche se gli si vuole bene. E io, un po', invidiavo anche don Pasquale, Teresa e Maddalena. Spesso, negli ultimi tempi, invidiavo perfino Poldino, solo perché lui era capace di starsene seduto su uno scoglio, per ore e ore, con qualunque tempo, aspettando che un pesce si allamasse. E a lui il pesce si allamava veramente. Ma, soprattutto, invidiavo certi turisti che si sedevano al ristorante, mangiavano, bevevano, ridevano, chiacchieravano ad alta voce, poi se ne andavano a passeggiare per tutto il paese e non facevano niente tutto il giorno.
Arrivava qualche soffio di vento tiepido. La brace era quasi pronta.Valentina andò a prendere un tavolino in cucina e lo portò sotto la pergola. Poi io la aiutai a portare le sedie, mentre Salvatore cominciava a mettere i pesci sulla graticola e ad ungerli con il mazzetto di rosmarino intinto d'olio d'oliva. L'odore del pesce grigliato si alzò subito. Lo sentirono anche due passanti che, tornando a casa, salutarono i miei due ospiti dalla strada. Il rumore del traffico si sentiva, ma lontano, attutito molto, e confuso con qualche tonfo del mare che da lì non si vedeva, ma cominciava a muoversi. Verso il mare, in fondo, l'aria si vedeva che era calda, ma offuscata e con una nuvolaglia che, piano piano, si muoveva.
"Potrebbe anche piovere, domani" dissi.
"Speriamo di no" disse Salvatore "La stagione dei temporali dovrebbe venire più in là. Comunque, piove o non piove, domani mattina presto torno alle grotte".
"E perché?" chiesi.
"Ci ho lasciato cinque filaccioni. Vedrai che qualche gronco o qualche murena ce la trovo. E se sono fortunato ci trovo pure una corvina".
In venti minuti i saraghi furono ben cotti. Li divorammo rapidamente insieme all'insalata, che Valentina aveva condito, e ad un bel pane cotto a legna. Poi facemmo tutti e tre una passeggiata nell'orto camminando sull'erba in mezzo agli ulivi, alcuni con i fiori, altri già con piccole olive.
"Tonì, adesso ti prepariamo la brandina in cucina" disse Salvatore "Ci vediamo prima un po' di televisione e poi ce ne andiamo a dormire. Se vuoi, domani mattina vieni con me".
"Beh, Salvatò, posso dormire qui, se vuoi, ma domani presto me ne devo andare".
"E dove devi andare?".
"A Roma".
"Non mi venire a dire che ci vuoi andare a piedi!".
"Beh... sì. Tanto non ho fretta".
"E lo dicevo io. Se te lo metti in testa, vai a piedi anche a Santiago di Compostela. Ci metti due anni ma ci arrivi!".
All'imbrunire entrarono tutti in Cucina. Salvatore mi mostrò la brandina da campo che dovevo aprire e usare più tardi. Intanto ci sedemmo tutti a guardare la televisione. Mi venne subito sonno, ma cercai di stare sveglio. Non ci riuscii. Quando riaprii gli occhi la brandina era già aperta. Salvatore mi disse di tirare la porta quando me ne sarei andato e se ne andò a dormire con Valentina, beato lui. Io dovetti solo spegnere la luce, togliermi la camicia e i calzoni e coricarmi. Mi addormentai subito.

Quando mi svegliai si vedeva e non si vedeva un poco di luce filtrare dalle fessure della finestra. Due o tre merli stavano fischiando a turno a tutta forza. Mi alzai, presi le mie cose dallo zaino, raggiunsi il bagno a tentoni, accesi la luce, mi guardai nello specchio, mi misi a urinare e ci stetti un bel po', perché erano passate almeno dieci ore da quando avevo fatto pipì l'ultima volta, nell'orto, dietro il limone. Poi mi lavai i denti, le mani e la faccia e mi feci la barba. Con una passata leggera di rasoio mi accorciai un po' anche i baffi. Poi dovetti liberarmi anche l'intestino. Feci presto. Oltre ai fischi dei merli, non si sentiva altro. Non volevo fare rumore io. Salvatore e valentina non erano abituati ad essere svegliati a quell'ora. Potevano essere le quattro. Vidi che c'era un secchio. Lo riempii d'acqua e pulii con quello il water. Uscii dal bagno lasciando un momento la luce accesa per poterci vedere un po' anche in cucina. Ma non ci si vedeva abbastanza. Allora accostai la porta e accesi la luce anche in cucina. Sul tavolo c'era un foglio con scritto sopra a pennarello: "Per Tonino". Sotto al foglio c'era una tessera, sì, avevo visto tanti che le usavano: era una tessera telefonica usata, perché mancava il triangolino. Sopra c'era scritto 20 euro. Il pennarello era lì e quindi scrissi sul foglio: "Grazzie. Vi devo un mezzo sacco di vongole veraci". Rimisi tutto nello zaino, mi infilai la camicia e i calzoni del giorno prima, spensi la luce nel bagno e in cucina e uscii tirando la porta, come mi aveva raccomandato Salvatore. C'era ancora poca luce. Mi avviai verso la spiaggia di Sperlonga, che non era lontana. Là mi tolsi le scarpe di pezza e proseguii, come sempre, a piedi scalzi, sul bagnasciuga. Sentii l'acqua fredda fredda. Cercai di tenermi al limite, dove la sabbia era già bagnata ma poco. Camminai moltissimo. Man mano che l'aria si schiariva, la spiaggia sembrava più lunga e più bianca. Dopo un'ora di cammino incontrai un canale e dovetti salire su una strada bianca che lo scavalcava. Verso l'interno c'era un lago pieno di canneti. Sentii diverse voci di uccelli di palude e vidi anche volare un airone grigio che mi sembrò grandissimo. Per la strada bianca non avevo perso tempo a rimettermi le scarpe. Continuai ancora per una o due ore sulla spiaggia. A un certo punto la strada provinciale si avvicinò a pochi passi dalla spiaggia. Vidi qualche casa intorno alla strada. Doveva esserci anche un bar. Infatti lo trovai subito e mi feci dare un cappuccino e un cornetto con la crema. Pagai con la prima delle banconote da 10 euro che mi aveva dato don Pasquale. Il barista mi diede un mucchio di monetine di resto e un biglietto da 5 euro. Uscii con le monete in mano. Qui bisognava fare un po' di scuola. Trovai una sedia vicino a un portone e mi ci sedetti per contare le mie monete. Ci stetti almeno dieci minuti e, alla fine, constatai con soddisfazione che il resto era giusto: erano due euro e novanta centesimi. Mi alzai, misi tutte le monetine in tasca e proseguii per la strada, con le scarpe, verso Terracina, che ormai era a pochi chilometri. Per qualche tratto potei tornare sulla spiaggia, ma era sempre più difficile, perché c'erano canali, muri e caseggiati che mi impedivano di proseguire. Alla fine entrai nel paese e dovetti chiedere a qualcuno la via, dissi, per andare al Circeo. Ci misi un bel po' ad attraversare tutta la zona abitata. In una piazza mi affacciai alla spalletta di un canale per vedere se c'erano pesci. C'erano molti cefali che boccheggiavano a pelo d'acqua.
Quando, finalmente, potei togliermi di nuovo le scarpe, dall'altra parte di Terracina, la spiaggia mi apparve ancora più lunga di quella di prima. E questa era strapiena di ombrelloni e gente stesa al sole. Molti erano anche nell'acqua a nuotare e a giocare. Prima di proseguire, tornai un po' verso l'interno, trovai un giardino pubblico semideserto e un cantuccio abbastanza nascosto dietro una fratta. Là tolsi le banconote dalla tasca, ne misi quattro da dieci in una busta di nylon, che poi ripiegai molte volte fino a farne un quadratino di dieci centimetri circa di lato, e le altre quattro più quella da cinque euro le misi in un altra busta che ripiegai alla stessa maniera della prima. La prima busta me la misi in tasca. La seconda la misi sul fondo dello zainetto. Quindi tornai sulla spiaggia. Quando arrivai in un punto della spiaggia che mi sembrava meno popolato, presi l'asciugamano e lo stesi sulla sabbia più pulita che riuscii a trovare. Sopra all'asciugamano appoggiai il sacco, ma di vento ce n'era poco. Mi sfilai i pantaloni e li arrotolai in modo che le monete non cadessero nella sabbia. Poi mi tolsi la camicia e rimasi solo con le mutande da bagno rosse. Quindi mi tuffai nell'acqua e mi feci una nuotatina presso la riva, dove si toccava. Ogni tanto guardavo il sacco per controllare che nessuno ci si avvicinasse. Quel bagno era quello che ci voleva per ristorarmi dopo tutta quella camminata. Mi stesi sull'asciugamano e chiusi gli occhi. Stetti sdraiato una mezz'oretta esponendo al sole un po' la pancia e un po' le spalle. Quando fui asciutto, a parte le mutande da bagno, e il sole mi cominciava a dare fastidio, mi misi la camicia, ficcai i calzoni e l'asciugamano nello zaino e tornai di corsa al giardino pubblico. Trovai una zona erbosa all'ombra e mi misi a riposare un altro poco. Poi, al riparo di un cespuglio, mi cambiai il costume e quello ancora umido lo stesi su qualche ramo insieme all'asciugamano. In un'altra mezz'ora fu tutto quasi asciutto. Scartai la pagnotta e controllai che il prosciutto con l'insalata non si fosse già ammuffito. No, era ancora buono. Mangiai un'altra metà di quello che rimaneva. Ritirai le cose stese ad asciugare e tornai, sempre a piedi scalzi, sulla spiaggia, di corsa per raggiungere il bagnasciuga. In nemmeno mezz'ora arrivai a Porto Badino. Per passare il canale dovetti rimettermi le scarpe e andare sulla strada. Dal ponte vidi un numero spropositato di barconi tutti bianchi o avana, comunque repellenti: niente a che fare con le barche dei pescatori che tanto tempo fa si vedevano ormeggiate nei porti, anche a Gaeta. A quanto pare, le barchette di legno colorate non esistono più, almeno in questa parte dell'Italia. Se non ci fossero i riflessi del mare che, miracolosamente, assumono tutte le sfumature possibili dell'arcobaleno, queste barche moderne, così come le navi, le case, i grattacieli, ci farebbero vedere tutto in bianco e nero. Meno male, i padroni di questi barconi, che si pavoneggiano qui intorno, non li posso invidiare. Sul pontile una decina di pescatori si dava da fare con le canne. Mi venne voglia di provare con la polpara, ma poi, se avessi preso il polpo, che ne avrei fatto? Avevo in mente di portarlo in omaggio ad Assuntina e alla sua famiglia. So che ad Assuntina piace il polpo, se ammorbidito e cucinato bene. Ma lì non sapevo per quanto tempo dovevo camminare ancora, perciò abbandonai l'idea e proseguii. Camminai tranquillamente per molte ore, a piedi scalzi, sulla rena che non finiva mai. La vista del monte Circeo, prima azzurro per la lontananza, poi sempre più vicino, mi accompagnò per tutta la strada. Verso il tramonto ci arrivai quasi sotto. Non avevo voglia di andare all'osteria a mangiare qualcosa di caldo. Vidi che il resto della pagnotta s'era conservato abbastanza bene, avvolto nella carta e nella plastica. Così mangiai quello che rimaneva. La carta la rimisi nella busta di plastica. Quando fu quasi buio, non c'era più nessuno sulla spiaggia. Mi tolsi la camicia e i calzoni, mi sciacquai nel mare le mani e la faccia, cercando di non bagnarmi le mutande da bagno. Poi ripresi il sacco e i vestiti e mi avviai verso il limitare della spiaggia. Là, sotto un albero, feci pipì e poi mi spostai qualche metro più in là, dove c'era un altro albero. Mi rivestii, stesi l'asciugamano sulla sabbia e mi ci misi sopra seduto. In quel momento, nell'immobilità, cominciai a sentire il suono ritmico del mare. Io sono abituato a questo rumore e, dopo un po', non lo sento più. Mi guardai bene tutto intorno per capire se c'era qualcuno a spiarmi. Quindi presi le due buste con i soldi e le sotterrai in due punti diversi che segnai con una croce per riconoscerli al risveglio. Per sicurezza mi fissai in mente la distanza e la direzione dall'albero. Quando fu ancora più buio vennero due innamorati a passeggiare e a baciarsi sulla spiaggia e non mi videro. Poco dopo se ne andarono. Mi stavo per addormentare quando sentii un gran frullare di ali e qualche gracchiata e poi, in riva al mare, potei intravedere una bella fila di gabbiani che zampettavano qua e là. Forse si preparavano a dormire anche loro. Beh, almeno avevo la loro compagnia. Mi addormentai.
Quando mi svegliai era ancora tutto buio e non si sentiva passare nemmeno una macchina sulla strada vicina. Andai a urinare vicino all'albero dove l'avevo fatto qualche ora prima. Sentii un animale che scappava tra le foglie dei cespugli. Sicuramente era un cane randagio. In riva al mare cercai di vedere se c'erano ancora i gabbiani, ma non li vidi. Forse se n'erano andati. Tornai al mio posto e mi feci almeno altre tre ore di sonno. Quando mi svegliai di nuovo cominciava ad albeggiare. In quel poco di chiarore potei vedere la fila di gabbiani ancora sulla riva, alcuni in piedi e altri accovacciati, come se covassero le uova. Probabilmente anche loro mi videro, ma la quiete e il silenzio furono rispettati da entrambe le parti. Quella notte non avevo mai avuto freddo e il giorno che veniva si preannunciava caldo forse anche più del precedente. Però mi misi ancora i calzoni lunghi perché volevo salire fino a S. Felice per fare colazione e per vedere dall'alto la strada che m'aspettava ancora. Dissotterrai i miei soldi, li riposi e mi misi in cammino. Le scarpe di pezza, con la suola di corda, non erano l'ideale per andare in salita, ma, in un'oretta, arrivai in cima al paese. I negozi erano ancora chiusi. Non c'era neppure un bar aperto. Quindi, dal punto più alto che potei raggiungere, mi misi a guardare tutto intorno. All'orizzonte c'era ancora molta foschia. Da una parte c'era tutto mare, dall'altra tutte distese boscose. Sulla spiaggia da percorrere sapevo che dovevano esserci dei laghi: qualche luccichio si intravedeva, ma molto poco. Trovai una panchina e mi ci sedetti. Un cane marrone, con un orecchio alzato e uno abbassato mi venne davanti sorridendo e scodinzolando. Cercai di fargli capire che non avevo niente da mangiare e quello, quando fu stanco di festeggiarmi, si stese sotto la panchina e chiuse gli occhi. Ma appena mi muovevo un poco, li riapriva e alzava la testa. Dopo una mezz'oretta arrivò un vecchio con un bastone e si sedette alla panchina vicina.
"Buongiorno." disse "Vi siete alzato presto! Prima di me!".
"Buongiorno." risposi "Voi vi alzate sempre così presto?".
"Eh, anche prima. E chi dorme la notte con questo caldo? Le stagioni si sono tutte scombussolate. Li vedete, laggiù, come volano? Sono balestrucci".
"Ah, è vero" dissi alzandomi per guardare meglio nella vallata. Prima non li avevo notati.
"In questi giorni si alzano presto anche loro e stanno sempre a volare qui intorno. Poi arrivano i rondoni e qualche rondine".
"Scusate" dissi "voi avete già fatto colazione?".
"No, no. Più tardi. Ma poi che colazione? Io mi prendo un bel caffè dal sor Enrico e sto bene per tutta la mattinata".
"E voi come vi chiamate? Io mi chiamo Antonio".
"Ah, come mi chiamo? Mi chiamo Enzo. Voi siete forestiero?".
"Sì, sono di passaggio. E dove sta il sor Enrico?".
"Ah, ci volete andare? Venite con me".
Si alzò e si avviò verso un archetto a passo svelto, senza mai appoggiare il bastone. Il cane si alzò, riprese a scodinzolare, ma non volle seguirci.
"Andate piano. Non c'è fretta. Dobbiamo solo fare colazione".
Non sembrava sentire. Percorse due o tre vicoli in discesa, fino a una piazzetta. Il bar del sor Enrico era lì, sull'angolo.
Feci la solita colazione con cappuccino e cornetto, questa volta appena scaldato nel forno a microonde, profumatissimo. Qundo ebbi finito il vecchio Enzo stava chiacchierando delle ultime partite di calcio con Enrico, e aveva ancora la tazzina in mano, mezza piena. Non mi sentirono neppure quando li salutai e me ne andai. Prima di scendere dal paese tornai al giardinetto di prima, dove mi accolse il solito cane scodinzolante. Dal belvedere diedi un'altra occhiata alla spiaggia che volevo percorrere, ma mi sembrò irta di ostacoli: case, muraglioni, grattacieli e la strada costiera troppo vicina alla spiaggia e già a quell'ora percorsa nei due sensi da molte automobili. Ormai potevano essere le otto. Vidi anche, in lontananza, scintillare l'acqua dei laghi e, più a destra, tante serre di plastica e qualche filare di viti e di alberi da frutta. Doveva essere una parte di quello che don Pasquale chiamava 'agro pontino'. Mi decisi a scendere pensando che, sicuramente, i prossimi quaranta, cinquanta chilometri me li dovevo fare con le scarpe sulla strada d'asfalto. Mi ricordai che ci doveva essere una strada più interna, dove il traffico doveva essere minore. Chiesi informazioni a un passante che mi mandò alla Fonte di Lucullo di là proseguii per Molella e Sabaudia. A sinistra avevo il parco del Circeo, chiuso dietro una rete. Mi tenevo sulla sinistra della carreggiata, come tante volte mi aveva consigliato don Pasquale, per non rischiare di essere investito alle spalle. Verso le undici arrivai a un bivio. Mi fermai un momento sotto un albero presi la busta dei soldi che avevo in tasca e l'aprii. Era quella giusta. Tolsi i cinque euro e una banconota da dieci. Poi ripiegai la busta e rimisi in tasca soldi e busta. Decisi di andare a Sabaudia. In paese cercai qualche negozio di scarpe, ma i prezzi erano altissimi, come quelli di Gaeta. Trovai un mercatino con bancarelle piene di scarpe cinesi con prezzi più contenuti, ma niente sotto i dieci euro. Io volevo comprarmi un paio di sandali con la suola di gomma , ma dovetti comprare un altro paio di scarpe di tela, come quelle che avevo, per cinque euro. Le avvolsi nella loro busta di plastica e me le misi nel sacco. Poi entrai in un negozio di alimentari e mi feci fare un panino con prosciutto cotto e caciotta. Spesi altri quattro euro. Uscii subito dal paese per una strada secondaria che doveva riportarmi sulla strada principale, ma più avanti. Quando ci arrivai, mi trovai il parco del Circeo, sempre chiuso dietro una rete, ma a destra. Le macchine ormai erano numerose, e io dovevo respirare il loro fumo pestifero. Ogni tanto mi dovevo riparare dietro un albero, in un fossato o sopra una piccola duna, per salvarmi da una macchina troppo veloce. Incontravo molte traverse, a destra e a sinistra, con cartelli indicatori di luoghi mai sentiti. Ogni tanto mi dissetavo con l'acqua di S. Felice. Quando arrivai alla traversa che portava al lago di Fogliano decisi di andarci. Per quella strada passavano meno macchine e potei guardare tranquillamente le bufale che ruminavano sulle rive o con le zampe nell'acqua. Vidi anche qualche uccello acquatico in volo o nell'acqua. La strada scavalcava il lago, con un ponte, e portava sulla costiera, dove il traffico diventava di nuovo indecente. Attraversai la strada e la percorsi per un po' sempre sul lato sinistro, finché non trovai un varco per raggiungere la spiaggia. Mi tolsi le scarpe e tornai di corsa sul bagnasciuga, dove continuai la marcia in mezzo a una folla di bagnanti seminudi e beati. Solo io ero completamente vestito e non vedevo l'ora di spogliarmi anch'io e di farmi un bagno ristoratore. Andai avanti ancora finché non trovai una zona meno affollata. Là mi tolsi la camicia e i calzoni, li buttai sulla rena e ci misi sopra il sacco. C'era un po' di brezza. Mi tuffai e stetti a sguazzare per un bel po'.  Quando vidi un venditore di parei, cappelli e occhiali che camminava proprio in direzione del mio mucchio di stracci, uscii dall'acqua, per prudenza, forse eccessiva. Il vocumprà proseguì per la sua strada senza nemmeno guardarmi. Mi venne da ridere: quello sicuramente aveva qualcosa, io possedevo in tutto circa 78 euro. Presi l'asciugamano, lo stesi sulla sabbia e, tenendolo fermo, mi ci sdraiai sopra. In quel momento mi accorsi che il cielo si era un poco rannuvolato. Forse la pioggia che avevo previsto due giorni prima sarebbe caduta quella sera o l'indomani. Mi venne in mente Assuntina e la famiglia, sì, potevo benissimo dire la mia famiglia, che avevo lasciato a Gaeta. Ci pensai seriamente: perché non avevo preso il treno? A quell'ora sarei arrivato da un pezzo e starei con la donna che amavo... Non lo sapevo. I soldi che mi aveva dato don Pasquale li stavo spendendo lo stesso, a poco a poco, per mangiare e per camminare sulle strada d'asfalto. E quanti pericoli correvo? Beh, a quelli ci ero abituato. Quando uno sta tutti i giorni con i piedi nell'acqua di mare e la testa al sole, con tutto quello che succede e che si vede in televisione, i pericoli non mancano. Certo, quando uno poi cammina sulla strada, con le macchine che sfrecciano in tutte le direzioni, è ancora peggio. Dovetti addormentarmi, perché dopo un po' mi svegliai e mi sembrò di ricevere sulle gambe qualche goccia di pioggia. Invece erano solo gli spruzzi di un'onda un po' più forte. Mi girai sul lato sinistro e vidi, sdraiata a pochi metri da me, una ragazza bellissima, con i seni nudi. Mi sembrò che mi guardasse e mi sorridesse. Chiusi gli occhi sperando di riaddormentarmi e di sognarmela. Li riaprii subito, ma quella si era alzata e si stava tuffando. Rimasi lì a riposarmi fino al tramonto. La ragazza se n'era già andata da un pezzo, e in tutta la spiaggia eravamo rimasti in pochi. Allora mangiai la pagnottella che mi ero fatto fare a Sabaudia. Poi mi alzai, presi le mie cose, mi infilai la camicia, ficcai tutto il resto nel sacco e mi rimisi in cammino. Il cielo era pieno di nuvole grige. All'imbrunire passai davanti a uno stabilimento, dove tre o quattro persone stavano ripulendo la spiaggia e legando le sedie e gli ombrelloni. Pensai che potevo dormire sotto alla tettoia di una cabina, ma non mi fermai, per non tradire la mia intenzione. Feci bene, anche perché da lì in poi incontrai uno stabilimento dietro l'altro. A un certo punto il cielo era diventato molto più scuro e non si vedeva più nessuno girare per la spiaggia. Mi avvicinai a una cabina, ma subito un cane cominciò ad abbaiare. Mi fermai e tornai indietro di alcuni passi. Poi tornai ad avvicinarmi lentamente. Il cane riprese ad abbaiare. Mi sedetti su una pedana di legno e lasciai che il cane si sfogasse. Quando smise, mi sdraiai sulla sabbia lì vicino. Ormai il cane aveva rinunciato al suo mandato di guardiano. Dopo un po' mi alzai, misi il sacco sulla padana, sotto la tettoia e mi allontanai un po' per andare ad urinare e anche per vedere che avrebbe fatto il cane. Non diede segni di vita, e io tornai al posto che avevo scelto e mi addormentai. Fui svegliato dalle prime gocce di pioggia con qualche raffica di vento freddo. Presi dal sacco i calzoni e la giacca a vento, li indossai e mi sdraiai sotto la tettoia. Tesi l'orecchio: si sentiva solo il ticchettìo della pioggia, che presto diventò uno scroscio poderoso. Ogni  tanto appariva un fulmine tortuoso e ramificato che si disegnava rapidamente tra le nuvole sul mare, il cane abbaiava per lo spavento e, poco dopo, si udiva il rotolio assordante del tuono. Mi addormentai. Lo sanno tutti che il temporale concilia il sonno. Quando mi svegliai albeggiava appena e la sabbia era ancora bagnata. Scavai una buca profonda almeno mezzo metro per assolvere al mio compito quotidiano di quell'ora: mi spogliai, defecai nella buca e la ricoprii con la sabbia, sperando che un bambino non sarebbe andato a scavare proprio lì, almeno per qualche giorno. Fatte le consuete abluzioni con l'acqua marina, stetti ancora un poco sotto la tettoia ad aspettare che l'acqua sulla pelle si asciugasse almeno un po'. Poi, non sentendo freddo, mi misi i calzoni corti e quelli lunghi li andai a sciacquare nell'acqua marina. Li strizzai, li arrotolai nell'asciugamano e li riposi nella busta vuota della pagnottella.. Mi rimisi il sacco sulle spalle e ricominciai a camminare sulla sabbia, finché non trovai un varco che mi avrebbe portato sulla strada. Quando ci arrivai mi guardai intorno: non c'era il minimo segno di attività umana. Trovai un cartello che diceva 'Lido di Latina', ma per andarci avrei dovuto prendere la direzione contraria a quella della mia meta. Allora mi misi le scarpe vecchie, ormai quasi logore, e continuai per la mia strada. Passai per Foce Verde e, in una mezz'oretta, arrivai a Torre Astura. Non l'avevo mai vista, ma mi ricordavo qualcosa a proposito di Corradino di Svevia che ci aveva dormito ed era stato tradito da un certo Frangipane. Il paesaggio era bellissimo. Mi sarebbe piaciuto fermarmi lì una giornata. Sicuramente, sotto quella torre, ci dovevano essere degli scogli, forse, pieni di cozze. Mi guardai intorno. Più avanti vidi un bar, ma era ancora chiuso. Allora decisi di andare a vedere la torre più da vicino. Andai fin sotto la torre, che sta sopra un isolotto attaccato alla terra da un lungo ponte. Guardai nel mare e vidi dei cefali. Dove nuotano i cefali può anche esserci uno scarico di fognatura, e difficilmente le cozze, se ci sono, sono commestibili. Rimasi un po' deluso. Voltandomi per tornare indietro, vidi la pineta, che sembrava enorme. Qualche pino isolato era anche al di qua della strada. A mezza costa mi sedetti sotto uno di quei pini a guardare il mare. Guardai verso sinistra e vidi tutta la spiaggia che avevo percorso, con l'acqua dei laghi e, in fondo, il monte Circeo. A destra vedevo parzialmente la spiaggia che dovevo percorrere e, in fondo, i tetti e i campanili di Nettuno. Dopo una mezz'oretta ricominciai a salire verso la strada. Il bar ormai era aperto e andai a farci colazione. Spesi due euro. Feci due  o tre chilometri, senza trovare nessuna traversa che portasse al mare. Passai per un villaggio chiamato Acciarella e, dopo altri due o tre chilometri, entrai a Nettuno. Continuai per un lungomare lunghissimo. Nel porto, attraccati a parecchi pontili, c'erano i soliti panfili, con alberi alti anche 12-15 metri. Ma qua e là si vedeva anche qualche piccola barca verniciata a colori vivaci, come si usava una volta e, da un  paio di pontili più lunghi partivano e arrivavano traghetti e catamarani. Ogni tanto salivo in paese per guardare qualche negozio, tanto per confrontare i prezzi. Non c'è bisogno neppure di dirlo: erano tutti prezzi altissimi, come quelli di Gaeta e di Sabaudia. Comunque, in un negozio di alimentari mi feci fare, questa volta per soli tre euro, una mezza ciabatta, di quelle grandi, con dentro pezzi di coppa romana e carciofini. Poi da un verduraio mi feci dare, per mezzo euro, due grandi mele 'deliziose'. Misi tutto nel sacco e me ne andai, ancora con le vecchie scarpe, che resistevano ancora, e col cappello in testa. Ad una fontanella pubblica, con rubinetto chiuso, mi rifornii di acqua, non tanto buona ma, mi dissero, potabile. Sulla lunga banchina del porto c'erano tanti bar e ristoranti all'aperto con tavolini sotto gli ombrelloni. Ormai era passato mezzogiorno e molti già erano seduti ai tavolini. Molti altri passeggiavano guardandosi intorno, proprio come facevo io. Intanto, quasi senza che me n'accorgessi, Nettuno era finito ed era cominciato Anzio. Anche lì c'erano tanti negozi, bar, ristoranti, edicole di giornali, altre che vendevano granite, altre ciambelle cosparse di zucchero. In un angolo vidi una cabina telefonica e mi venne voglia di telefonare. C'era già qualcuno. Aspettai il mio turno e quindi usai per la prima volta la tessera che mi avevano lasciato Salvatore e Valentina. Passai un po' di tempo a leggere le istruzioni sotto al telefono. Quando fui sicuro di aver capito tutto feci il numero di Assuntina. Quando lei sentì la mia voce: "Ah, alla buon'ora!" disse "E quanto ci mette questo treno?".
"Assuntì, sono ad Anzio a trovare certi amici, poi ti racconto. Domani prendo il treno e arrivo".
La comunicazione si interruppe, ma non me ne preoccupai. Assuntina certe volte si arrabbiava con me, ma poi le passava. Ripresi la cornetta e feci il numero di don Pasquale. Come al solito rispose Maddalena. A quell'ora erano tutti indaffarati per servire i clienti.
"Maddalè" dissi "non ti scordare di dire a tutti che ho telefonato. Oggi sto ad Anzio. Domani prendo il treno e arrivo da Assuntina".
Dopo le brevissime telefonate, precedute dalla lunga lettura delle istruzioni, ricominciai a camminare finché non mi lasciai alle spalle anche le ultime palazzine di Anzio. Lì potei raggiungere di nuovo la spiaggia, mi tolsi le scarpe e proseguii sul bagnasciuga. Presto fui quasi solo. Mi spogliai, come al solito, lasciai tutto sulla spiaggia a due o tre metri dal bagnasciuga, entrai nell'acqua e ci rimasi per una buona mezz'ora. Poi, come al solito, mi misi ad asciugarmi al sole. Quando il sole mi cominciò a scottare presi tutto e mi avviai verso l'interno per trovare un po' d'ombra. Trovai un alberello vicino a un muro. Mi misi seduto all'ombra e consumai il mio pranzo: circa metà della mezza ciabatta ripiena. Bevvi qualche sorso dell'acqua tiepida di Nettuno, riposi tutto, andai a sciacquarmi in mare, feci pipì dietro al muretto, pensando che lì ero abbastanza nascosto, mi rimisi il sacco sulle spalle e continuai la mia marcia. La spiaggia era lunghissima, comoda e molto frequentata per quella stagione. Sorpassai molti stabilimenti. Ogni tanto qualche bagnante mi sorpassava correndo. Altri, correndo, mi venivano incontro. Al tramonto, quando ormai la spiaggia appariva spopolata guardai verso la strada e vidi parecchie case. Allora mi decisi a percorrere un pezzo di strada per vedere dove ero arrivato. Questa volta decisi che era ora di mettermi le scarpe nuove. Sulla strada, tornando indietro per un centinaio di metri, un cartello mi indicò il nome del paese: Marina di S. Lorenzo. Allora ritornai sulla spiaggia. La serata si annunciava calda, ventilata e asciutta. Camminai sul bagnasciuga per qualche altro chilometro. Mi fermai presso uno stabilimento che, a quell'ora, sembrava disabitato. Ci arrivava la luce di un lampione della strada. Lì nessun cane ebbe voglia di abbaiare, quando salii sulla pedana e trovai una cabina aperta. Così pensai di sfruttare quel rifugio per quella notte, ma, per il momento, nella cabina faceva troppo caldo, se chiudevo la porta. Lasciai la porta aperta e mi sdraiai sul pavimento di legno. Dopo un po' sentii dei passi sul legno della pedana. Prima che potessi alzarmi, arrivò un omino che, vedendomi, si spaventò. Indietreggiò un poco e poi gridò:
"Ahò, chi sei? Questa cabina è mia. Il padrone la lascia aperta per me tutte le sere. Come l'hai trovata?".
"Mah" dissi, cercando di controllarmi, perché ero spaventato anch'io "l'ho trovata aperta e ho pensato di dormirci stanotte. Ma se è tua, me ne vado subito".
Raccolsi il sacco ed uscii.
"Aspetta" disse l'omino. Sarà stato alto non più di un metro e cinquantacinque. Io non sono particolarmente alto, ma sicuramente più di lui.
"Più avanti ce n'è un'altra. Ti puoi mettere là, tanto Alfonso non c'è. Ma mi devi dare cinque euro".
"Grazie" dissi azzardando un lieve sorriso "ma cinque euro non ce l'ho. Ne ho due".
Li tirai fuori dalla tasca.
"E in quello zaino che hai?" chiese l'omino.
"Ah" dissi "ho un pezzo di ciabatta con coppa e carciofini. L'ho conservato per la cena. Se ne vuoi, facciamo metà per uno".
Volevo allentare la tensione. L'omino non mi ispirava nessuna fiducia.
"Va bene, mangiamo" disse l'omino "Io ho un pezzo di pizza con i funghi. E tu da bere che hai?".
"Da bere? Solo un po' d'acqua di Nettuno".
"Ah,ah!" rise l'omino "Quello è piscio. E va bene, io ho un po' di vino".
Non avevo intenzione di accettare né cibo né bevanda da quell'individuo. Perciò dissi: "No. Il vino non lo posso bere. Me l'ha proibito il dottore. E i funghi non mi piacciono. Perciò, buon appetito. Io me ne vado a dormire".
Lo lasciai a bocca aperta e mi avviai nella direzione della cabina, provando le maniglie. Quando trovai quella aperta ci entrai e rimasi in attesa tendendo l'orecchio. Sentii subito scricchiolare il pavimento di legno e l'omino mi ragggiuse.
"E quando mi paghi la pigione?" disse guardandomi attraverso la porta aperta.
"Domani mattina, come si fa negli alberghi" dissi "Sempre prima di mezzogiorno".
"E quanto mi dai?".
"Come? Due euro, te l'ho detto".
"E io t'ho detto che sono pochi. Mi devi dare anche quella mezza ciabatta coi carciofini e la coppa. E subito, che ho fame".
Aprii il sacco e lui subito lo agguantò e lo tirò a sé per frugarci dentro. Estrasse una delle buste, quella delle scarpe. Mi arrabbiai, gli strappai dalle mani il sacco e la busta, gli diedi una spinta e me ne andai di corsa. Se mi avesse inseguito, non avrebbe retto il mio passo. Sapevo di essere molto più allenato e più sano di lui, che, sicuramente, era un ubriacone. Se avessi accettato il suo vino - ipotesi assurda senza neppure un bicchiere di plastica pulito - sicuramente mi avrebbe fatto ubriacare o, almeno, sarebbe riuscito a rallentare i miei riflessi e mi avrebbe derubato. Camminai a lungo nella notte lungo il bagnasciuga al chiarore delle onde che riflettevano la poca luce dei lampioni della strada o quella delle stelle. Dopo circa mezz'ora trovai un altro stabilimento deserto. Non si sentiva alcun rumore. Salii su una pedana e mi ci distesi subito usando il sacco come guanciale. Ma usai una delle buste di plastica come cordone per assicurare una delle cinghie alla mia spalla. Dormii tranquillamente senza alcun disturbo, tanto che quando mi svegliai, l'alba era già passata. Ma sulla spiaggia non c'era alcun segno di vita. Solo in riva al mare alcuni gabbiani zampettavano in compagnia di qualche cornacchia. Quando, dopo la consueta evacuazione in una buca, andai a bagnarmi un po', gli uccelli volarono via sbattendo sonoramente le ali. Mi preparai subito a proseguire il mio viaggio che ormai, pensavo, quel giorno, sarebbe giunto al suo termine. Mi sentivo allegro e leggero, anche se l'incontro dell'omino della sera precedente mi aveva dato un po' di preoccupazione. Meno male che era solo un omino debole. Pensai che, in certe occasioni, un'arma, una pistola potrebbe servire. Ma a me nessun commissariato darebbe  un porto d'armi. E perciò, la sera che incontro un omone invece di un omino, può anche darsi che ci rimetto la pelle.
Ma dopo, sì e no, un'ora di cammino, fui assalito da una certa debolezza. Eh, sì, avevo proprio fame. La metà della mezza ciabatta con i carciofini e la coppa era ancora nel mio sacco, ma, a quell'ora, non mi attirava. Ormai, sulla strada, si poteva incontrare un bar aperto. Così uscii sulla strada e mi misi le scarpe nuove. Guardai da una parte e dall'altra, ma vidi solo boscaglia e dune di sabbia. In lontananza, in direzione contraria alla mia, vidi un uomo in piedi vicino a un autobus. Se volevo sapere qualcosa dovevo raggiungerlo, e quindi ci andai a passo svelto. Aveva la divisa da conducente. Gli chiesi di un bar e lui mi disse che, forse, ce n'era uno al Borgo S. Rita, alla prima traversa, a circa un chilometro di distanza. Un chilometro, per me, è una passeggiata. Ci andai quasi di corsa. Era vero, il bar c'era, ma era ancora chiuso. C'era un uomo seduto ad un tavolino vicino alla serranda chiusa. Mi disse che il bar, la domenica, era chiuso. Gli chiesi se ce n'era un altro da quelle parti.
"A Pratica di mare o a Pomezia, a tre o quattro chilometri". Non avevo scelta: dovevo raggiungere il bar più vicino. In mezz'ora arrivai a Pomezia e là, finalmente potei sfamarmi con due cornetti e un caffelatte. Spesi quasi tre euro. Mi feci anche riempire la bottiglia di acqua potabile. Nella piazza principale c'era un'edicola di giornali. Mi fermai un momento a leggere qualche titolo dei giornali esposti. Gli argomenti erano i soliti: i tuiristi dispersi dello tsunami, gli attentati suicidi in Iraq, l'aumento del petrolio, la crisi europea. Tornai verso il mare e, raggiunta la strada costiera, la percorsi per un po' guardando le dune di qua e di là. Incontrai diverse fermate di autobus, ma nessun autobus passava. Di macchine se ne videro una o due. Finalmente trovai un altro autobus fermo e il suo conducente. Domandai se potevo pagare il biglietto sull'autobus, ma era come a Gaeta: si doveva comprare in tabaccheria o da qualche giornalaio. Se ci pensavo prima, lo compravo a Pomezia. Allora continuai un po' a piedi e subito vidi un cancello chiuso sul lato del mare con un numero a fianco: il numero 9. Avevo già sentito parlare di questi cancelli che c'erano, vicino a Ostia, da cui si accedeva a grandi e belle spiagge molto bene organizzate. A quel punto capii di essere quasi arrivato a Ostia. A fianco al cancello c'era un varco da cui si poteva passare. Naturalmente ci andai, mi tolsi ancora le scarpe e proseguii sul bagnasciuga. Sulla spiaggia c'erano moltissime costruzioni in muratura, lunghe e basse, ma tutte chiuse. Vicino al cancello successivo vidi una cabina telefonica. Andai subito a vedere. Sembrava in funzione. Rilessi le istruzioni, uguali a quelle del giorno prima, e telefonai ad Assuntina. Mi rispose la sorella. Le dissi che ero vicino a Ostia e che sarei arrivato in giornata. Lei disse che avrebbe riferito.
"Ma Assuntina è uscita?" domandai.
"Sì".
"E come mai? Non doveva rimanere in casa per non respirare il polline?".
"Siccome qui è piovuto per due giorni di seguito, adesso, almeno per qualche giorno, può uscire".
"Va bene. Ritelefono quando arrivo a Ostia".
Ripresi la mia marcia. Poi mi venne voglia di bagnarmi. Non c'era nessuno sulla spiaggia. Feci il mio bagno di mezz'ora e mi asciugai al sole per un'altra mezz'ora. Poi andai all'ombra sotto a una stuoia mezza rotta, appesa a un sostegno di ferro e, finalmente, mangiai l'ultimo pezzo di ciabatta avanzata dal giorno prima. Quando mi fui riposato, controllai la mia roba e mi accorsi di non avere in tasca la scheda telefonica. L'avevo dimenticata nella fessura del telefono. Dovevo tornare indietro a cercarla. Ci arrivai in una mezz'ora e, per fortuna, la trovai nella fessura. Ritelefonai e questa volta mi rispose Assuntina.
"Totò, sei a Ostia?".
"No. Sono al telefono di prima, ai cancelli, perché mi ero dimenticato la schedina nel buco del telefono".
"Ah, ma sei un capoccione! Scommetto che, per riprenderla, sei tornato indietro".
"Sì, certo. Se no come ti chiamavo?".
"Va bene non ti muovere da lì, che ti vengo a prendere. A quale numero di cancello stai?".
"Dovrebbe essere il numero 8. Ma adesso torno verso il numero 1. Ci possiamo incontrare lì".
"E figuriamoci se tu riesci a stare un pochino fermo! Va bene, quando arrivi al numero 1 fermati lì e aspettami. Per me, con la macchina ci vorrà una mezz'oretta".
Saranno state le tre o le quattro del pomeriggio.
Quasi di corsa, sul bagnasciuga, arrivai al cancello 1 in un quarto d'ora. Mi misi all'ombra di un cespuglio ad aspettare, seduto su un blocco di tufo. Sul cespuglio c'erano dei fiori bianchi. Sembravano rose selvatiche. Sentii un verso rauco, una specie di cigolio come di un cardine arrugginito. Mi ricordai di averlo già sentito e che mi era stato spiegato che fosse il verso di un fagiano. Proveniva dalla parte opposta della strada. Mi alzai per vedere e lo vidi subito. Doveva essere una femmina, perché aveva la coda corta. Se ne andava beccando di qua e di là sulla duna.
Aspettai, forse, due o tre ore. Assuntina non arrivò.
Allora trovai un varco e uscii nella strada. Non si vedeva nessuna macchina. Cominciai a preoccuparmi. Ero indeciso. Alla fine scelsi di proseguire per la strada, con le scarpe nuove, verso Ostia. Se fosse passata mi avrebbe visto. Sicuramente mi avrebbe riconosciuto. Passò qualche macchina, mentre camminavo, ma non si fermò. Finalmente, al tramonto, arrivai a una piazzetta con una fermata di autobus e una cabina telefonica. Questa volta non rilessi le istruzioni. Feci il numero, aspettai circa venti squilli, ma nessuno rispose. Ritentai una seconda volta senza successo.
Ripresi la marcia verso Ostia. Passai davanti a diversi stabilimenti balneari, tutti chiusi. Alla fine raggiunsi un gran piazzale illuminato da un enorme lampione, con una lunga balaustra a semicerchio sul mare. Ormai era sera inoltrata. Mi sentivo stanchissimo e infelice. C'era qualcuno a guardare dalla balaustra, ma nessuna cabina telefonica. Chiesi a qualcuno quanto mancava a Ostia. Mi dissero che il centro di Ostia stava a non più di cinque chilometri. Allora cercai un varco per tornare sulla spiaggia, ma camminai per almeno due chilometri, senza trovarlo. C'erano solo stabilimenti chiusi, senza nessun passaggio per la riva del mare. Non credo che sia una cosa legale. Finalmente, dall'altra parte della strada vidi una cabina telefonica. Andai anche lì a telefonare, ma ancora non ebbi risposta. Allora, per quella notte, mi rassegnai e mi inoltrai per le strade di Ostia. Ormai quasi tutti dormivano. Alla fine tornai verso il mare e potei raggiungere la spiaggia, scavalcando una balaustra e passando sotto a un pontile.
Ora sono qui, al buio, cammino avanti e indietro e sono quasi disperato. Forse domani riuscirò a parlare con qualcuno e saprò che cosa è successo. Ma le ipotesi possibili non sono tantissime.

(La conclusione è rimandata alla prossima stagione, ormai imminente)

 

 
mic.dang@tiscalinet.it
mic.dang@libero.it
RITORNA AL MENU