Il pensiero del granchio
(Ottobre 2000)
Rubrica di ciò che il granchio pensa nel suo buco-giardino.
rondini artificiali

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Leggere della guerra di Troia come se fosse cronaca dei nostri giorni, ascoltare il racconto dalla bocca dei protagonisti, vederli agire in un contesto storico ravvicinato, moderno, realistico, comprensibile nelle motivazioni: tutto questo si può provare leggendo ‘Il canto di Troia’ di Colleem McCullogh.. Ogni capitolo è raccontato da uno dei protagonisti o da personaggi coinvolti più o meno direttamente: inizia Priamo, segue Peleo, il padre di Achille, quindi il centauro Chirone che, secondo le fonti, avrebbe istruito Achille ed Aiace Telamonio. E poi, via via, parlano delle vicende e delle loro esperienze, sentimenti e impressioni Elena, Paride, Ettore, Agamennone, Ulisse, Diomede, Patroclo, Briseide, Enea, Nestore, Automedonte, l’auriga di Achille, e Neottolemo, il figlio di Achille. Ogni personaggio, parlando di sé, esce fuori dall’atmosfera leggendaria in cui lo vedeva, per così dire, il padre cieco di tutti i poeti. E diradando le nebbie dalla propria personalità aggiunge un tassello al concreto mosaico delle vicenda che, sui banchi di scuola, ci appariva così vaga, irreale e lontana. Diciamolo chiaramente: neppure a scuola ho mai creduto plausibile la volontà di riprendere Elena, rapita da Paride, come giustificazione di quella guerra. Dall’età della ragione - non saprei dire quando mai sia cominciata - ho sempre sospettato che sotto ci fosse un motivo ben più grave: un motivo di economia e di potere. E questa sembra essere, secondo l’autrice, la vera spinta che portò una coalizione tra re di poleis greche a radere al suolo una città fortificata dell’Asia Minore posta a difesa dello stretto dei Dardanelli, via di mare importante per le transazioni commerciali con l’Oriente. In nove anni gli Achei non riuscirono ad espugnare Troia, ma riuscirono ad abbattere altre città della costa turca e ad iniziare una colonizzazione intensiva. Soltanto nel decimo anno le astuzie di Ulisse - il vero artefice della vittoria - permisero al miceneo Agamennone, re dei re (ma primus inter pares), di saccheggiare Troia. Questo è il succo della storia, non diverso dal banale motivo che muove - ancora oggi purtroppo - tutte le guerre umane. Ma nel libro vengono alla luce altri due o tre temi interessanti. Il sacco di Troia ad opera degli Achei - che non fu l’unico, come dimostrano le diverse cinte di mura ritrovate da Schliemann - avvenne, sembra, intorno al 1184 a. C.. Siamo quindi al culmine dell’età del bronzo. Se i Greci avessero saputo che in pochi anni sarebbe stato scoperto il ferro, forse non si sarebbero preoccupati di penetrare nel Bosforo per aprirsi la via verso le miniere di stagno, minerale indispensabile per avere il bronzo. E siamo anche in un’epoca di grande fermento culturale, purtroppo non documentato da reperti scritti perché in Grecia ancora non esiste una vera scrittura. Siamo in un’epoca in cui si passa da una vecchia religione basata sul culto di dei oscuri del sottosuolo, degli abissi e degli inferi ad una nuova che parla di dei celesti e luminosi. La vecchia religione indirizza le paure e le superstizioni verso il mistero del parto e favorisce il matriarcato e quindi un certo prepotere femminile. La nuova religione agevola il passaggio verso il patriarcato e il prepotere maschile. Nella vecchia religione si praticano sacrifici umani e le vittime sono soprattutto maschi. Ma nei racconti della guerra di Troia troviamo il sacrificio di Ifigenia che porta con sé un po’ dell’una e un po’ dell’altra religione. La guerra di Troia, dunque, non fu causata dal ratto di Elena, ma dal bisogno dei Greci di accedere alle miniere di stagno a prezzi accettabili (è uguale alla guerra del Golfo!). E l’ira di Achille non comincia dalla stupida e arrogante decisione del re dei re di strappare la schiava Briseide dalle mani del re dei Mirmidoni e tenerla per sé. Anzi, la tesi dell’autrice è tutta diversa. Achille era innamorato di Ifigenia e ne fu, forse, l’amante per una notte, prima del sacrificio. Achille era un giovane principe attaccato disperatamente alla vita. Voleva una vita forte, intensa, ricca di emozioni e di gloria, in cambio dell’eternità che non aveva ottenuto alla sua nascita, quando Peleo l’aveva tolto dalle mani della madre Teti, la quale voleva ucciderlo come tutti i figli precedenti per farlo passare direttamente alla vita eterna. Briseide gli ricordava Ifigenia e tra i due nacque certamente una forte passione se è vero che la fanciulla si uccise pugnalandosi presso il rogo di Achille. Ma Achille amò fortemente anche Patroclo, forse ne fu l’amante, in un contesto civile in cui i rapporti omosessuali non erano poi così scandalosi. Sapete che significa ‘Achille’? Senza labbra. Era quasi un mostro marino, come sua madre Teti. Eppure era di una bellezza straripante che faceva innamorare tutte le donne che gli stavano intorno. E la stessa Teti non doveva essere così spaventosa se Peleo se ne innamorò. Era, tuttavia, una strega perversa, una divinità oscura e repellente, che ogni tanto appariva ad Achille e lo faceva soffrire, causandogli sintomi di epilessia, per fargli provare quanto fosse doloroso il momento del trapasso e convincerlo così a desistere dalla scelta di una vita breve e gloriosa invece di una lunga e pacifica. Un’altra coppia famosa, forse omosessuale, furono Ulisse e Diomede, compagni di avventure e di astuzie. Veramente il genio era Ulisse. Diomede era solo un ammiratore, sia pure bravo guerriero e stratega. Ulisse raccolse tutti gli scontenti e contestatori dell’esecito e ne fece un gruppo speciale di spie che, di notte, entravano in Troia travestiti, passando per le fogne, e, mescolandosi agli abitanti, potevano conoscere le intenzioni e le mosse del nemico. E ad Ulisse, astutissimo eroe protetto da Pallade Atena, l’autrice attribuisce molto più della sola idea del Cavallo: tutto ciò che i posteri hanno creduto, dalla rivendicazione di Elena, all’ira di Achille, alla contesa tra Achille e Agamennone, alla peste suscitata da Apollo tra le schiere dei Greci, non sarebbe che un’invenzione di Ulisse, una messinscena architettata per convincere i Troiani ad approfittare della debolezza dei nemici e uscire in campo aperto nella certezza di potere ricacciare in mare la flotta degli invasori. Solo in campo aperto infatti, sulle rive dello Scamandro e del Simoenta, i Troiani potevano essere battuti perché le mura di Troia erano inespugnabili. E l’idea del cavallo di legno non fu che il coronamento di dieci anni di intensa attività strategica. Detto così, può sembrare che gli altri re non avessero molti meriti, rispetto ad Ulisse. Ma ovviamente nelle battaglie serviva la forza bruta di tutti i combattenti e anche la solidarietà tra i cittadini di tante poleis che da allora cominciarono a dimostrare di essere una vera nazione. Viene messo in rilievo anche lo stile di comando del re Agamennone, al quale va il merito di avere agevolato l’opera di Ulisse e di avere sempre promosso la discussione tra i diversi re prima di decidere. Di contro il vecchio Priamo è un autocrate all’antica che non ammette interferenze e discussioni neppure da parte dei suoi figli più stimati, tra i quali annovera Paride ed Ettore. Insomma la tesi dell’autrice sembra essere che la vittoria andò alla forza crescente di una civiltà più intelligente, al genio greco che aveva in sé la forza della logica e della discussione appassionata e che dopo qualche secolo avrebbe inventato la Democrazia.
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