Il pensiero del granchio
(Luglio 2000) Rubrica di ciò che il granchio pensa nel suo buco-giardino. |
Riguardo alla storia romana, come d'altronde alle altre
storie, è noto quanto fragile sia la credibilità dei fatti
narrati da storici che, da sempre, hanno avuto progetti diversi dalla semplice
obiettività. Sallustio, che non era uno dei meno onesti e scrupolosi,
era però un seguace di Cesare - il quale per altro non doveva sentire
alcun bisogno di storici al suo servizio, dal momento che le storie delle
sue guerre se le scriveva da sé - e lavorava unicamente per arricchirsi:
fine plausibile ma che mal predispone al culto della verità. E Tacito,
grande anima tormentata da eventi fatali e ineluttabili che portarono imperatori
sadici, viziosi e maniaci di grandeur a soffocare le ultime tracce
di res publica rappresentata dalla classe senatoria, fu tradito dal
suo stesso sdegno, per quanto giusto, tanto che, al di là degli indiscussi
meriti, non riuscì nell'intento di trasmetterci un quadro veramente
fedele e imparziale della realtà e dei personaggi della sua epoca.
La parzialità, l'incapacità di ogni storico, per quanto serio,
a rendere scientificamente l'insieme dei fatti contemporanei o del recente
passato è cosa nota ed obbliga ogni studioso altrettanto serio a procedere
sempre col beneficio del dubbio e a sentire le diverse campane, prima di
accettare una tesi. Ma ciò che non ricordo di aver sentito dire, e
che pure qualcuno deve aver notato, è che una uguale dubbiosità
dovrebbe nascere riguardo alla narrazione di fatti vecchi e da tempo acquisiti
alla storiografia, per un motivo che io trovo abbastanza evidente. La storia,
come ogni altra di quelle che non vengono definite 'esatte', è una
scienza complessa e difficile da praticare. Quella antica, in particolare,
non trova sempre documenti autorevoli ed esaurienti. A volte abbiamo solo
pochi frammenti da ricomporre, tradurre, interpretare, immaginare, inventare.
E in quest'opera, ammirevole, affascinante, ma incerta nei risultati, i moderni
ricercatori, interpreti e indovini, portano con sé non solo il loro
talento naturale o acquisito con lo studio e la passione, ma anche tutto
il bagaglio culturale e, direi, evolutivo che è ormai patrimonio
indelebile di ogni uomo moderno. In tal modo commettono parecchi errori ottici,
per così dire, dovuti alla lente deformante della modernità.
Succede a loro esattamente quello che accade a certi zoologi o etologi che
finiscono per umanizzare i comportamenti degli animali. Voglio precisare
che non sto qui a discutere o a criticare le ricerche, assolutamente meritevoli,
affascinanti e condivisibili, che tendono a rilevare comportamenti di
intelligenza, di saggezza o di ingegnosità in certi animali con i
quali - nessuno ormai osa più metterlo in dubbio - siamo apparentati.
Sto solo affermando che l'abito mentale di uno zoologo, per quanto questo
si sforzi di abbandonarlo e di correggerlo, è necessariamente una
forma di antropocentrismo dovuto alla mole delle conoscenze documentali
accumulate con la civiltà difficilmente paragonabile a tutto ciò
che gli animali osservati possano comunicarci direttamente o indirettamente,
a cagione dei mezzi d'indagine ancora imperfetti. Senza volere mettere sullo
stesso piano animali e uomini antichi - non dico quale sia il piano più
alto perché non credo che ve ne sia uno - rimane il fatto che negli
ultimi cento anni l'uomo ha raggiunto un progresso tecnologico e culturale
di gran lunga superiore a quello attuato nei precedenti cinquemila anni:
è la vecchia tesi, che abbraccio, sostenuta, tra gli altri,
dal grande Asimov. Al progresso tecnologico e culturale non associo nessuna
forma di trionfalismo o di entusiasmo: è solo un fatto facilmente
osservabile. E' noto poi il grave e pericoloso contrasto tra questo progresso
- che mette nelle mani dell'uomo strumenti distruttivi spaventosi - e l'indole
aggressiva e selvaggia rimasta intatta dai tempi della guerra di Troia. Mi
domando se non sia questo istinto primitivo indomabile che permette allo
studioso moderno di rimanere perfettamente in sintonia con i tempi antichi,
quando si tratta di guerre, omicidii, rapimenti, torture e carneficine; mentre
gli atti gentili, la mitezza d'animo, la vita pacifica degli umili, sono
tendenze non appariscenti e di difficile interpretazione. Si può dire
- e molti dicono - che la storia dovrebbe chiamarsi 'storia della civiltà',
perché quelle del pensiero, della scienza, della letteratura, dell'arte
sono discipline convenzionalmente separate, come se tutte queste cose non
fossero proprio gli elementi caratterizzanti di una civiltà.
Tuttavia è un buon sintomo, a mio parere, che i testi storici scolastici
siano ritenuti migliori quando includono analisi sul tipo di società,
di economia e di tutte le manifestazioni umane di un'epoca, oltre alla consueta
esposizione di guerre, trattati, formazione di dinastie e di imperi, invasioni,
stragi, distruzione di popoli e città. Sia chiaro che la mia tesi
è priva di fondamenti razionali: è solo un sospetto. Ma ho
l'impressione che proprio nell'interpretazione del pensiero, del comportamento
e di certi atteggiamenti morali gli studiosi commettano gli errori più
grossolani, indotti a trasporre inconsapevolmente la loro mentalità
di uomini moderni nei tempi e nei personaggi antichi. Avrei voluto portare
qualche prova concreta di questa mia impressione, ma fino ad ora non ne sono
stato capace. Ho trovato solo un paio di passi dell'ottimo Antonio Spinosa
che, solo debolmente confortano il mio pensiero. L'ultimo che ho trovato
si riferisce al momento dell'ascesa al trono imperiale di Marco Aurelio e
del collega Lucio Vero in seguito alla morte di Antonino Pio: "L'impero
attraversava una fase di estrema instabilità. I romani avevano
l'impressione di essere seduti su una polveriera che fosse in procinto di
esplodere...". E' ovvio che l'autore è un uomo moderno che parla ad
uomini moderni e quindi è senz'altro plausibile ed efficace l'immagine
della polveriera. Eppure a me fa sorridere. Mi ricorda l'orologio al polso
dei gladiatori nei primi film storici sull'antica Roma. L'altro passo non
è uno solo. Tutte le volte che l'autore parla di imperatori e uomini
politici che avevano a cuore l'erario, mi viene un po' da ridere. L'erario
al tempo dei romani era qualcosa di molto concreto, qualcosa come il deposito
di Paperon de' Paperoni, un bottino personale di ogni sommo uomo di potere
alimentato dalle tasse di patrizi, plebei arricchiti, cavalieri, popolazioni
vinte. Forse Quintino Sella o altri grandi statisti moderni potrebbero nutrire
preoccupazioni professionali moderatamente disinteressate, ma non gli eroi
estremamente ambiziosi, sanguinari e schiavisti del regno, della repubblica
o dell'impero romano, e poi del medioevo e del rinascimento. Veramente io
nutro seri dubbi anche sul disinteresse degli statisti moderni. Ma gli antichi
romani non potevano sapere che quando le casse dello stato si prosciugano
può sorgere una crisi economica, dal momento che la prima degna di
questo nome, che io sappia, c'è stata solo negli anni trenta in America.
Nei tempi antichi c'erano mezzi potentissimi per risolvere sul nascere
qualunque crisi economica: la schiavitù e le carneficine quasi quotidiane.
Chissà se oggi, in America, in Europa, qualcuno non abbia nostalgia
di quei tempi...
mic.dang@tiscalinet.it mic.dang@libero.it
|