Il pensiero del granchio
(Giugno 2000)
Rubrica di ciò che il granchio pensa nel suo buco-giardino.
rondini artificiali

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Camminando per la strada, quelle rare volte che cammino per una strada cittadina, mi capita di incontrare un conoscente. Mi è difficile incontrare un amico, dal momento che nel mondo non ne ho più di uno o due. Un conoscente è uno che ti conosce e che tu il più delle volte riconosci a stento. Ci sono quelli discreti che, visto che tu li ignori, ti ricambiano di buon grado. Ci sono i vicini di casa con cui quasi tutti i giorni scambi le uniche dolcissime formule rituali di saluto: buon giorno, buona sera, hi, ghiasù, bon soir, buenas tardes, ecc.. Ma altri non possono fare a meno di parartisi davanti e di sottoporti a cerimonie festose e di spararti tre o quattro domande di seguito e, senza aspettare le risposte, di fornirti tutte le notizie riguardo alla loro piatta vita, come se fossero eventi strepitosi, divertenti o ammirevoli, senza ricordarsi che ti avevano già ragguagliato l'anno scorso e nel frattempo non è cambiato nulla. Devo confessare che le persone di questo tipo mi mettono a disagio. Quasi quasi preferisco quelli che mi raccontano pettegolezzi sul vicinato o quelli che mi sottopongono i problemi cruciali della loro vita chiedendomi consigli. E' difficile che io riesca a risolverglieli, ma almeno posso esercitare con loro le mie capacità analitiche. Quando uno invece viene a dirmi di non avere problemi, di essere felice e soddisfatto della sua vita, di godersi la sua meritata pensione dedicandosi a meravigliosi lavoretti domestici, di avere figli e nipoti che sono la sua consolazione, è la buona volta che m'incazzo. A parte il fatto che sembra scendere da un migliore dei mondi possibili che non esiste, è evidente che vuole stuzzicare la mia invidia o sfidarmi per vedere se per caso io non sia più felice e soddisfatto di lui. Ma la coscienza mi induce a non raccogliere queste sfide, perché io sono abituato a guardarmi intorno, a pretendere di sentirmi cittadino del mondo, a dolermi sempre della stupidità umana, non esclusa la mia, che ci impedisce di affrontare con decisione i veri problemi dell'umanità... inclusi i miei personali.

Da qualche tempo circola una interpretazione, a mio parere offensiva, della disoccupazione italiana. Si dice che non è che non ci sia lavoro; è che i giovani non sono preparati per i lavori che ci sono. Non so su quali dati si fondi questa ipotesi. Può essere che si sia pensato alla scoperta, fatta recentemente dai benpensanti, che l'analfabetismo è ben più alto e radicato (30%?!) di quanto ci si aspettasse. Oppure qualche studioso particolarmente acuto ha capito che, nelle nuove tecnologie, la formazione, per via del progresso rapido, è sempre ad un punto critico e richiede forme di aggiornamento perenne. Su dati come questi è facile la diagnosi: voi non siete preparati per questi lavori! Sarebbe onesto aggiungere: è difficile che lo siate mai. Certo, adesso che il governo ha espresso questa opinione, subito accettata da tutti, compresi i sindacati, si dovrebbe assistere a grandi sforzi per compensare questa formazione arretrata. Ma intanto, mi si dice, viene dall'America uno studio sul futuribile che vede scomparire, nel giro di pochi decenni, la maggior parte delle professioni tradizionali, per esempio i dentisti! Notizia entusiasmante! Nessuno avrà più bisogno del dentista? Oggi purtroppo ne hanno bisogno ancora tutti: chi può e chi non può pagare. Riguardo alla severa gestione della sanità, ci sono casi emblematici come quello di quel pover'uomo che, dopo essersi indebitato per curarsi una grave malattia del nervo ottico e per combattere contro il vizio di un figlio drogato, è stato sfrattato per morosità e ora dorme nella sua macchina. Gli amici gli pagano la benzina. Ogni tanto casi come questo vengono pubblicizzati in televisione, e i pietosi conduttori chiedono agli amministratori strappi alle regole per venire incontro a questi emarginati. Nessuno chiede di cambiare immediatamente le regole? Regole che permettono il verificarsi di casi come quello citato e di tantissimi altri simili sembrano dettate dai complici degli assassini. Noi da qualche decennio, per combattere il famigerato assenteismo e le pensioni dei falsi invalidi, viviamo in una società in cui la malattia è una colpa che si punisce con la decurtazione dello stipendio, seguita dal licenziamento e, non di rado, dalla morte. Dunque, e non solo in Italia, abbiamo forme latenti di condanna a morte. E questo forse è un altro modo, ipocrita e inconsapevole, insieme alle guerre etniche, alle desertificazioni, alle speculazioni degli affaristi a spese dei poveri - finché i poveri possono spendere - per combattere il problema demografico.
Se fosse vero che la maggior parte delle professioni più o meno tradizionali saranno spazzate via dal progresso, che potranno fare i nostri figli e nipoti? A mio parere, dovranno innanzitutto liberarsi dall'ipocrisia che cerca di accecarli e vedere serenamente che, per quanto studino e siano preparati, solo pochi di loro potranno avere un'occupazione tra le poche disponibili. Allora l'umanità avrà poche scelte. Potrà scegliere di continuare il modo di vita attuale che porterà al noto fenomeno per cui pochi ricchi possidenti vivranno chiusi nelle loro case dotate di ogni comodità ma in un perenne stato di assedio, mentre i poveri intorno vivranno in una condizione di abbrutimento. Oppure potrà scegliere di modificare in maniera più intelligente e civile i fondamenti della società, assicurando una vita decente a tutti, curando l'equilibrio tra risorse naturali e numerosità delle popolazioni. Alle condizioni ipotizzate, la piena occupazione è un obiettivo da abbandonare, perché è ridicolo pensare di impiegare dieci persone per pigiare un bottone. L'obiettivo giusto è invece un'alta qualità della vita per tutti: occupati e disoccupati. Il detto "chi non lavora non mangia" o l'altro, più ridicolo e volgare, "chi non lavora non fa l'amore" è un concetto che poteva avere qualche traccia di validità morale fino ai primi sei o sette decenni del ventesimo secolo. Esso ha conservato il suo valore di tragica realtà e continuerà a conservarlo se si sceglierà di mantenere gli ordinamenti plutocratici in vigore nel mondo. Ma è un concetto che indigna chi è abituato, per educazione e per scelta di civiltà, a mettersi nei panni dei più deboli. A meno che non si continui a pensare, erroneamente, che il lavoro c'è ma non lo si sa fare o, addirittura, non lo si vuole fare. Ci sono attività, come la panificazione, che nessuno vuole più fare? Non è vero. A me, per esempio, piacerebbe fare il pane nei forni a legna, ma l'attuale legislazione, come è noto, mi vieta, in pratica, di scegliermi un lavoro che mi piacerebbe. E' solo una testimonianza personale per dire che molti potrebbero amare un'attività come questa. Se io potessi farlo, oltretutto, forse non starei qui a tediarvi con queste chiacchiere.

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© 2000 Emanuele & Michele