“Autobiografia di un cattolico marginale” di Giovanni Franzoni
Negli anni ’60 e ’70 si è parlato molto di Giovanni Franzoni. Era uno dei preti cattolici del dissenso attivi in quel periodo, come David Maria Turoldo, Ernesto Balducci, Enzo Mazzi, Lorenzo Milani, il salesiano belga Gerardo Lutte, Giulio Girardi, don Roberto Sardelli, padre Agostino Zerbinati, don Andrea Gallo, don Peppino Coscione, don Marco Bisceglia e tanti altri meno conosciuti.
Per informazioni su questi preti ed ex preti vedere http://www.eresie.it/it/EraContemporanea.htm
Nessuno di loro ha mai dichiarato di volere uscire dalla chiesa cattolica, ma tutti hanno preso sul serio lo spirito del Concilio vaticano II (http://it.wikipedia.org/wiki/Concilio_Vaticano_II) e dell’enciclica “Populorum progressio” (http://it.wikipedia.org/wiki/Populorum_progressio).
Il Concilio vaticano II, indetto dal papa Giovanni XXIII nel 1962 e concluso da Paolo VI nel 1965, ha indotto la chiesa cattolica a rivedere, cercando di interpretare i “segni dei tempi”, alcune vecchie posizioni dogmatiche, a rinnovare la propria organizzazione, a rendere più libera e scientifica la lettura dei testi sacri, a rendere più trasparente e aperta la liturgia, ad aprirsi al dialogo con i fedeli, con le altre religioni e con la politica e, infine, a cercare soluzioni per salvare il mondo dalla povertà.
La “Populorum progressio”, indirizzata nel 1967 da Paolo VI a tutti i fedeli e a tutti gli uomini di buona volontà, è un appello accorato perché tutti si adoperino per esaudire il giusto desiderio dei poveri di “essere affrancati dalla miseria, garantire in maniera più sicura la propria sussistenza, la salute, una occupazione stabile; una partecipazione più piena alle responsabilità, al di fuori da ogni oppressione, al riparo da situazioni che offendono la loro dignità di uomini; godere di una maggiore istruzione”.
Ma perché, secondo il papa, era necessario che la chiesa facesse sentire la sua voce a favore dei poveri in quel momento storico? Il motivo dichiarato è questo “i popoli della fame interpellano oggi in maniera drammatica i popoli dell’opulenza. La chiesa trasale davanti a questo grido d’angoscia e chiama ognuno a rispondere con amore al proprio fratello”. E’ una chiara, potente, un po’ tardiva assunzione di responsabilità di fronte all’insopportabile sofferenza dei più deboli della terra, che suscitò entusiasmi e dubbi tra tutti coloro che appartengono al “popolo di Dio”, e che vorremmo vedere condivisa anche dai più retrivi politici ed economisti, che difficilmente proverebbero amore cristiano, ma potrebbero recuperare un elementare e doveroso senso di giustizia.
Giovanni Franzoni nacque a Varna in Bulgaria nel 1928 e fu battezzato col nome di Mario. Prese il nome di Giovanni Battista solo quando diventò monaco benedettino nel 1954.
La sua autobiografia è un estremo tentativo di mostrare alla gente la verità sulle sue scelte e, insieme, una risposta approfondita, da aggiungere a quella già data a suo tempo – e ignorata - alla richiesta di chiarimenti che il Cardinal Poletti gli fece in nome della Santa Sede nel 1976.
Il Franzoni dichiara che le ragioni delle sue scelte esistenziali vadano ricercate, tra l’altro, nelle sue esperienze infantili e giovanili, e nell’influenza che ebbero su di lui i nonni, i genitori e altri parenti e amici.
Il nonno materno, Joseph Reiter, originario di Pola, fu ufficiale della marina austriaca, dotato di un profondo rigore morale messo a dura prova da molte vicende terribili della sua vita, come, ad esempio, la persecuzione sanguinosa degli armeni attuata sotto gli sguardi indifferenti dell’intera Europa.
Il nonno paterno, Giuseppe Franzoni, garibaldino premiato per il valore mostrato nella battaglia di Bezzecca, nato a Lerici ma residente a Carrara, a quei tempi terra di anarchici e ribelli, sposò una nobile inglese, Lina Udney, con cui ebbe quattro figli, tra cui Andrea, il padre di Giovanni e del fratello maggiore Giancarlo.
La madre, Serafina Reiter, era nata a Pola e aveva conosciuto Andrea al circolo italiano di Varna in Bulgaria dove lui lavorava nella locale filiale della banca commerciale italiana.
Andrea da giovane aderì al fascismo e collaborò a un giornalino fascista. Morì di tubercolosi quando Giovanni aveva appena sei anni.
Quando Andrea morì, la famiglia si trovava a Firenze, dove continuò a vivere sotto il fascismo. Serafina dovette trovare un lavoro per sopravvivere, perché la pensione del marito non bastava a sfamare la famiglia. Si dedicò all’insegnamento del francese, che conosceva molto bene per averlo studiato a scuola fin dall’infanzia, tanto da considerarla la sua vera lingua madre.
Durante la seconda guerra mondiale Giovanni era un adolescente iscritto all’Azione Cattolica e andava come volontario ad aiutare medici e infermieri negli ospedali di Firenze. Di fronte ai molti feriti e moribondi, curati con mezzi di fortuna, il ragazzo ebbe esperienze penosissime e sconvolgenti.
Tra le altre che ho letto ne ricordo una che mi è parsa molto significativa: un moribondo, assistito da un frate cappuccino che si ostinava a mostrargli un crocifisso, ogni volta, con sforzi superiori alle sue possibilità, si girava dall’altra parte.
Giovanni ne fu molto impressionato: capiva le ragioni del cappuccino, ma la sua ostinazione gli sembrava una tortura per il disgraziato moribondo.
“Poi, anni dopo – osserva il Franzoni – una interpretazione me la diede il rabbino Di Segni, qui a Roma. Mi disse ‘Sai, quella persona era il popolo ebreo che da quasi 2000 anni gli fanno vedere il crocifisso, e lui non lo vuole vedere’”.
Fu in quel periodo, durante la guerra e nel primo dopoguerra, che si manifestarono le prime avvisaglie di una timida vocazione al sacerdozio, contrastata dalla mamma, per comprensibili motivi di affetto, e da altri che gli stavano vicino.
Tuttavia, terminato il liceo classico, Giovanni si trasferì nel collegio Capranica a Roma dove frequentò per tre anni la Pontificia Università Gregoriana e conseguì la licenza in filosofia. In quel periodo ebbe anche modo di conoscere e stringere amicizia con diverse persone di grande apertura e libertà spirituale, come Luigi Rosadoni
(http://www.adistaonline.it/index.php?op=articolo&id=52185), Ivan Illich
(http://it.wikipedia.org/wiki/Ivan_Illich), Pasquale Foresi
(http://it.wikipedia.org/wiki/Pasquale_Foresi), il monaco benedettino Albert de Saint Avit. Cominciò anche a conoscere e frequentare i monasteri e le grandi basiliche di Roma: San Paolo, Santa Maria Maggiore, Sant’Anselmo sull’Aventino. Quest’ultimo fu molto apprezzato dal giovane Franzoni per la spontaneità dei monaci nel canto gregoriano e nelle pratiche liturgiche.
L’11 luglio 1950, festa di S. Benedetto, il Franzoni iniziò il suo noviziato nell’ordine benedettino presso l’abbazia di San Paolo dove, l’11 luglio del 1954 fu ordinato monaco benedettino dall’abate Vannucci, fiorentino, che gli impose il nome di Giovanni Battista, in omaggio al santo patrono di Firenze.
Da monaco e poi da sacerdote il Franzoni si occupò di un gruppo di scout e, con l’aiuto di alcuni ragazzi più maturi, organizzò un “branco” di lupetti, arruolando ragazzi spastici provenienti dall’istituto Trazzeri che stava vicino alla basilica. I giovani aiutanti si prodigavano per far divertire quei particolari lupetti e indurli a muoversi, al fine di recuperare, per quanto possibile, le funzioni muscolari. Ottennero qualche piccolo miracolo sotto gli occhi commossi dei genitori.
Nell’estate del 1955, Franzoni e alcuni capi scout erano in gita sul monte Bianco e là, con grande dispiacere, ricevettero la notizia della morte dell’abate Vannucci, al quale il Franzoni era legato da una grande amicizia.
Nel 1956, l’abate D’amato, successore di Vannucci, inviò Franzoni a Farfa come rettore del collegio collegato all’abbazia, con l’incarico di chiuderlo al più presto perché poco redditizio. Invece Franzoni riuscì a rilanciarlo e a renderlo più gradevole per i ragazzi che vi erano alloggiati e che là frequentavano la scuola media o il liceo. Franzoni ebbe anche l’incarico di insegnarvi storia dell’arte e filosofia.
Nell’ordine benedettino sono i monaci a scegliere il loro abate. Nel 1964 i monaci di S. Paolo, costrinsero l’abate Cesario D’Amato a dare le dimissioni ed elessero abate Giovanni Franzoni con l’approvazione del papa Paolo VI. La domenica delle palme, il papa, venuto in visita alla basilica di S. Paolo, regalò al nuovo abate, ancora prima dell’investitura ufficiale, un anello d’oro con incisi alcuni rami di palma. Nel giorno dell’investitura si celebrò una messa con una procedura nuova, prevista dal Concilio. I celebranti erano quattro: l’abate Franzoni, il Cardinale Confalonieri, l’abate di Montecassino Rea e il vescovo di Assisi Nicolini. Durante la cerimonia si presentò, di sua iniziativa, la signora Francesca, addetta alle pulizie nel collegio di Farfa, e regalò all’abate un mazzetto di erbe profumate da lei raccolte in montagna. Ecco come il Franzoni racconta l’episodio: “[Francesca] disse: ‘Giuà, te l’ho colte stamattina sulla montagna’. Io rimasi commosso forse più che del dono del papa: mi parve che Francesca fosse la vedova che Gesù notò donare al tempio tutto quanto aveva, anche se era un minimo di fronte alle offerte degli abbienti”.
Da abate Giovanni Franzoni si dedicò, anima e corpo, alla riorganizzazione dell’abbazia. Aveva già notato diversi problemi: S. Paolo non si poteva più considerare “fuor le mura”, dal momento che interi quartieri erano stati costruiti lì intorno; la povertà di molti abitanti di vecchie case e baracche era evidente; la lotta di classe tra lavoratori e padroni infuriava; bisognava uscire dal placido isolamento della comunità monastica e andare incontro alla gente, che quindi doveva essere accolta “entro le mura” dell’abbazia.
Anche dentro al monastero sopravvivevano antiche difformità, ingiuste agli occhi dell’abate: per esempio, i frati conversi
(http://it.wikipedia.org/wiki/Converso
e
http://digilander.libero.it/monachesimo/organizz.htm), che nei secoli precedenti erano addetti ai lavori manuali e mantenevano le relazioni con l’esterno del convento, erano ancora discriminati. Franzoni volle elevarli al ruolo di monaci a tutti gli effetti con gli stessi diritti e doveri degli altri, attuando la proposta della Congregazione per gli istituti religiosi di unificare le famiglie religiose al loro interno. E in seguito a questa iniziativa cominciò a farsi qualche nemico.
Cominciò anche ad uscire per visitare gli altri monasteri dipendenti da S. Paolo: quelli femminili di Amelia e di Civitella San Paolo sotto il monte Soratte. Qui l’abate incontrò un simpatico vecchio cappellano, che stava lì per dire la messa per le suore, il quale lo ringraziò per la visita ma lo avvisò che lui stava benissimo dov’era e che non voleva spostarsi. Ad Amelia quasi tutte le suore erano francesi, compresa la badessa che, conversando con l’abate, sostenne che era ora di istituire il sacerdozio anche per le donne. La logica era inoppugnabile: considerando la diminuzione incessante delle vocazioni maschili, se si ammala il cappellano chi celebra la messa e impartisce i sacramenti?
Come abate nullius, cioè non dipendente da un vescovo, Franzoni partecipò alla terza e quarta sessione del Concilio vaticano II e poté constatare il fervore con cui i vescovi di tutto il mondo discutevano sui temi più importanti per la vita futura della chiesa. Molti avrebbero voluto discutere anche su temi scottanti come la contraccezione, il celibato dei sacerdoti, l’apertura delle cariche ecclesiastiche alle donne, ma dovettero arrendersi di fronte all’opposizione dei tradizionalisti e dello stesso papa.
Tuttavia il Franzoni ricorda ed espone alcuni interventi significativi suoi e di altri partecipanti al Concilio.
Per esempio c’è un intervento del patriarca Melchita Massimo IV Sahig che disse: “La chiesa è sempre stata per i poveri, ma li ha sempre lasciati poveri! Nel nostro tempo, in cui i poveri lottano per uscire dalla condizione di povertà, è necessario che la Chiesa sia finalmente con i poveri per sostenere il loro impegno”.
Massimo IV era il patriarca della chiesa cattolica orientale di Antiochia e, in occasione del concilio, fu ospitato nell’abbazia di S. Paolo. Inoltre un giorno il patriarca fu invitato a presiedere una messa pontificale in S. Pietro, secondo la liturgia di S. Giovanni Crisostomo, per cui il patriarca sedeva su un trono a un lato del presbiterio e, su un altro trono all’altro lato, sedeva il pontefice, Paolo VI, con il triregno sul capo. Al momento dell’offertorio, Paolo VI si alzò, si tolse il triregno dal capo, attraversò il presbiterio e offrì il triregno al patriarca. Poi un cerimoniere intervenne e sussurrò qualcosa all’orecchio del papa, il quale allora salì all’altare e vi posò sopra il triregno.
L’episodio, di cui il Franzoni fu testimone oculare, non fu dato interamente alle stampe: si scrisse solo che il papa si era tolto la tiara e l'aveva messa sull'altare.
“Fatto sta che da quel momento – dice il Franzoni – nessun papa ha più messo in testa quel simbolo di potere spirituale e temporale, in cielo e in terra, e sarebbe ora che scomparisse anche dallo stemma ufficiale del Vaticano”.
Uno dei nuovi principii affermati dal concilio, grazie agli interventi dei padri americani e olandesi, fu quello della libertà religiosa. “Cadevano – dice il Franzoni – tutti gli anatemi scagliati da Pio IX nel suo Sillabo contro quella corrente ‘modernista’ che sin dal secolo XIX sosteneva questa libertà. Diventavano così inutili […] i giuramenti ‘antimodernisti’…” che venivano richiesti a novizi e sacerdoti in varie occasioni della vita ecclesiastica. “Altro testo molto contrastato, anche se pochi ammettevano di essere contrari, fu quello che poi divenne la dichiarazione Nostra aetate sull’ecumenismo, nella quale si cancellava per sempre l’espressione ‘popolo deicida’, riguardante gli ebrei”.
L’abate Franzoni che, secondo l’uso, aveva scelto un motto (non vestra sed vos: ho a cuore voi, non i vostri beni) iniziò subito a mettere in pratica le indicazioni del Concilio. Intorno a lui si formò - e si rafforzò negli anni - una comunità di base, costituita da laici, in maggioranza, e da religiosi, che, insieme a lui preparavano ogni sera gli argomenti che l’abate avrebbe inserito nell’omelia da pronunciare nella messa del giorno dopo.
E queste omelie, oltre a pratiche innovative come i canti sacri durante la messa accompagnati da ragazzi che suonavano la chitarra, attiravano folle di fedeli e furono molto apprezzate anche da laici come Pier Paolo Pasolini, a avversate da altri, come Indro Montanelli. E provocarono anche reazioni rabbiose da parte di violenti provocatori di estrema destra che arrivarono a spaccare una chitarra sulla testa di chi la stava suonando.
Per circa otto anni l’abate Franzoni non poté nascondere le sue idee radicali in difesa dei poveri, dei lavoratori, degli emarginati e contro le violenze e le guerre, per esempio quella del Vietnam. Poi cominciò a ricevere visite inquisitorie.
Dice il Franzoni: “Dapprima ci fu la [visita] ‘canonica’, appunto perché condotta dall’interno della stessa congregazione, dall’abate Clerici, presidente della congregazione cassinese, che non trovò nulla di anomalo; ma evidentemente ‘dall’alto’ insistevano, e venne allora la seconda visita, questa volta ‘apostolica’, cioè ordinata dalla Sacra Congregazione dei Religiosi e affidata all’abate benedettino vallombrosano, Enrico Baccetti. Costui ascoltò tutti i monaci e il sabato venne da me e mi disse più o meno: ‘Senti, io ho ascoltato tutti i monaci, poi sono andato alla Santa Congregazione dei Religiosi; Mayer non c’era, non c’era nessuno, per me non c’è nulla di anomalo da segnalare, quindi me ne vado’. Io gli chiesi […] se fosse possibile fare un comunicato congiunto da leggere il giorno dopo durante la predica. E così fu…”.
Le visite inquisitorie continuarono sempre più incalzanti, finché apparve chiaro che, per volontà delle gerarchie ecclesiastiche, Franzoni doveva dare le dimissioni da abate.
A giugno del 1973 l’abate Franzoni consegnò al priore e alle monache di Civitella San Paolo e di Amelia una lettera pastorale indirizzata ai monaci meditata a lungo e preparata con i membri più esperti della sua comunità di base: “La terra è di Dio”.
Questa lettera, dice il Franzoni: “ha il suo posto tra i documenti del magistero”. E ne spiega il senso: “La terra è di Dio e quindi non può essere usata come strumento di potere e di differenziazione, ma solo per la vita della gente. Mi appellavo al libro del Levitico nella Bibbia: ogni sette anni c’era un anno sabbatico e ogni cinquant’anni le terre venivano restituite al titolare che le aveva perse per strada […]. La terra può essere utilizzata, sfruttata, ma alla fine la sua utilità deve essere per tutti. E tutto questo, coordinando il lavoro degli esperti, lo mettevo in relazione al silenzio della Chiesa sulla speculazione edilizia a Roma”.
La terra è solo un simbolo per indicare ogni tipo di proprietà eccessiva e di noncuranza verso i poveri.
Il 28 giugno 1973 l’abate Franzoni annunciò ai fedeli in Basilica le sue prossime dimissioni e dichiarò che avrebbe continuato la sua vita monastica in mezzo alla gente.
“Tra i fedeli – dice il Franzoni – ho trovato tre tipi di risposte. Alcuni mi avrebbero seguito nella nuova esperienza; altri dissero che cercavano di salvare quel che potevano all’interno della basilica; alcuni altri mi dissero, più o meno: ‘La chiesa che ci caccia è l’unica che esiste, tu hai sognato, per me l’esperienza religiosa finisce qui’”.
Il 12 giugno 1973 Franzoni presentò le sue dimissioni, che verranno accettate alla fine di agosto. Per i primi tempi fu ospitato dai monaci camaldolesi di San Gregorio al Celio. In seguito, prese un appartamento in affitto in via Ostiense, presso la Basilica di San Paolo, insieme a un monaco belga.
L’11 settembre 1973 avvenne il colpo di stato di Pinochet in Cile con l’assassinio di Salvador Allende. La comunità di base decise di riunirsi in un capannone dei mercati generali dove don Franzoni celebrò la messa. Anche questo fu uno scandalo criticato dalla stampa di destra.
In aprile del 1974 iniziò la propaganda elettorale per il referendum abrogativo del divorzio. Franzoni, come altri del mondo cattolico, si schierò dalla parte del no.
Il 27 aprile fu sospeso a divinis.
In seguito, per la continuazione delle sua attività sociali e politiche a fianco del partito comunista italiano, e senza mai aderire ad alcuna ideologia contraria alla fede cattolica, fu ridotto allo stato laicale.
La sua comunità è ancora viva e attiva.
http://www.cdbsanpaolo.it/
Nell’aprile del 1990 Giovanni Franzoni sposò la pedagogista giapponese Yukiko Ueno.
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