“Mille anni che sto qui” di Mariolina Venezia
Il romanzo ha, nella prima pagina, una piccola ‘carta’ che, se fosse completa, potrebbe servire da indice dei nomi: un albero genealogico che comprende 4 generazioni di una famiglia lucana il cui capostipite è Don Francesco Falcone, proprietario terriero ai tempi dei briganti, cioè ai tempi del passaggio dal regno di Napoli al regno d’Italia. In quest’albero si possono ritrovare molti dei personaggi raccontati dall’Autrice, ma non tutti. Sono molti di più. In un’intervista l’Autrice dice di non averli contati, ma di amarli tutti ugualmente.
La ‘carta’ è un appunto con i nomi dei 20 parenti prossimi che Gioia, ultimo personaggio e ultima della famiglia in ordine di tempo, scrive come pro memoria su richiesta della nonna Candida, ultranovantenne.
“Devi farmi una carta, perché non mi ricordo più niente. Il nome dei miei figli, e chi era mio padre. Me lo porterò sempre in tasca”.
“Vabbene, adesso te lo faccio. Quella sottolineata sei tu. E io ancora non ci sono”.
Premettendo che la lettura di questo romanzo è stata per me un’esperienza di grande partecipazione e commozione, e che apprezzo la moltitudine dei personaggi e anche il ‘caos’ narrativo, da taluni avvertito, la mia tendenza a semplificare e a schematizzare ogni cosa m’induce a cercare i vari protagonisti che, lasciati passare alcuni giorni e dimenticati i minimi particolari, potrei ridurre a tre o quattro a cui l’Autrice si dedica con maggiore passione e finisce per mettere in maggiore rilievo: Gioia, l’ultima della stirpe, quella che per i primi tre quarti della storia è stata in ombra a spiare lo scenario, quasi un fantasma ogni tanto evocato; Alba, figurina fragile, lieve, quasi anoressica, madre di Gioia che da lei ha ereditato l’inappetenza, dotata di sensibilità elevata, di sensualità e anche di acume e opportunismo grazie ai quali può permettersi di prendere le decisioni più importanti e pratiche per la famiglia; Rocco, marito di Alba e padre di Gioia, bambino sensibilissimo che aveva stretto un’amicizia straordinaria con una scrofa e aveva dovuto assistere all’abbattimento dell’animale in un concerto macabro di usi primitivi e barbarici, e dopo era rimasto muto per due anni - finché non era stato ‘guarito’ da un vecchio stregone - poi studente svogliato e testardo, poi maestro di scuola elementare in ‘Altitalia’, convertito al Comunismo da una bella bionda attivista, quindi, dopo la guerra, attivista a sua volta a Grottole, il paese di tutta la ‘dinastia’; Candida, la nonna di Gioia, madre di Alba che fu l’unica femmina dei suoi sette figli, donna pratica e lavoratrice, innamorata di tutti i suoi figli, spiritosa e pronta a adattarsi ai cambiamenti e alle sorprese della vita; Concetta, la capostipite, povera contadina sedotta e accolta in casa da Don Francesco, ma solo per generare almeno un figlio maschio che non arrivò, se non dopo sei femmine.
Don Francesco, ucciso dai briganti, è quasi una leggenda e fa parte del paesaggio meridionale, avaro, arido e assolato.
“Gli uccelli si misero tutt’a un tratto a fare un gran fracasso nel boschetto di querce che costeggiava i campi, poi ci fu silenzio. Il cielo stava schiarendo. Si avvicinarono i cavalli degli uomini che cercavano il corpo.
In quel momento si alzò il vento, un venticello fresco che veniva giù dai Cappuccini, piegando le spighe di grano ancora acerbe. La giornata sarebbe stata limpida. Fece svolazzare i capelli intrisi di sangue intorno al viso irriconoscibile di don Francesco, sollevò le foglie, e si allontanò verso l’Ai Mar”.
Il ‘caos’ a cui ho fatto cenno, a mio parere, non è che uno stratagemma narrativo ben architettato: tornare indietro per riprendere fili interrotti o lasciati in sospeso, o balzare in avanti per anticipare scene ed emozioni importanti che in qualche modo sono legate a discorsi e a tesi appena enunciate. Forse è la tecnica teatrale e cinematografica nota a questa giovane scrittrice.
Gioia è forse un personaggio di ispirazione autobiografica. Certamente è quasi coetanea dell’autrice e vive sulla sua pelle tutti i rischi le avventure entusiasmanti e le disavventure della nostra epoca: la contestazione giovanile, la liberazione dei costumi, i pericoli e i danni della droga, il terrorismo politico, la disillusione simboleggiata dalla caduta del muro di Berlino.
Secondo l’Autrice, il romanzo ha un’ispirazione pittorica: la prima parte è di tipo impressionistico con figure delineate in modo sufficientemente realistico, la seconda - la vita di Gioia - è ispirata alla pittura futuristica di Picasso, in cui l’oggetto è guardato da diversi punti di vista, con flash istantanei e senza un quadro d’insieme.
La somiglianza con altre opere che narrano lunghi periodi, tanti personaggi, tante generazioni, è evidente. E’ evidente la parentela con “I Malavoglia” di Verga e “Cento anni di solitudine” di G. G. Marquez. Lo stile, la tenerezza, la scelta della passionalità elementare del popolo contadino in evoluzione, richiama anche le pagine di Isabel Allende. Ma in questo romanzo si parla di vicende storiche vicine a noi, si parla delle repressione del brigantaggio, con un numero di morti superiore a quello di tutte le guerre del Risorgimento, si parla dei bambini emigranti che venivano messi sui bastimenti che partivano da Napoli verso il miraggio americano, si parla delle occupazioni delle terre da parte dei contadini, delle uccisioni di innocenti nelle manifestazioni che, con sangue e tumulti, forse costrinsero il governo italiano a varare la riforma agraria, si parla, insomma, di quell’umile Italia disperata, che è nel ricordo dell’esule Carlo Levi, condannato al confino nella Basilicata ardente descritta in “Cristo si è fermato ad Eboli”.
Basta. E’ troppo facile emettere giudizi sommari e classificare. Scendiamo da cavallo. Leggiamo i passi che ho amato di più.
“Verso sera, in pegno di amicizia, il bambino regalò a Candida [quando era ancora bambina – n.d.r.] un uccellino primavera. Aveva le ali nere, il petto giallo e una testolina rotonda e piumosa.
Albina la trovò che gli lisciavano le piume. Le strappò di mano l’uccello primavera, lo osservò per un attimo, poi lo scagliò via. Candida lo guardò allontanarsi nel cielo fino a diventare un puntino sempre più piccolo.
Si produsse in quel momento in lei un mutamento senza il quale non sarebbe sopravvissuta, una cosa del tutto nuova che nella sua famiglia non c’era mai stata e che lei trasmise alla discendenza come un regalo o una condanna, a seconda dei punti di vista: la capacità di cambiare idea.
Mentre l’uccellino primavera stava scomparendo mormorò dolcemente, fra i denti, và a fa’ fott’, e invece di scoppiare a piangere scoppiò a ridere” (pag. 55).
E c’è un’altra celebre risata di Candida che segnò un cambiamento nella sua mentalità e nei suoi disegni. Candida aveva fatto voto a Dio che il suo primo figlio, Mimmo, sarebbe stato prete, e lo mandò in seminario. Mimmo fece ogni sforzo per accontentare sua madre, ma alla fine non ne poteva più “dei diaconi appostati dietro le tende, del divieto di ridere durante la quaresima e dei muratori che si grattavano le palle quando li vedevano passare, così piccoli e tutti vestiti di nero”. Così, quando Candida fu chiamata dalle autorità del seminario per informarla che il figlio aveva bestemmiato davanti all’altare, invece di rammaricarsi e di chiedere perdono per il figlio, scoppiò in una risata incontenibile.
“Giuseppe Amodio, figlio di Rocco [un altro Rocco, non quello che sposerà Alba – n.d.r.], era partito per le Americhe che era solo un ragazzo. A Napoli, dove era andato a prendere il bastimento, aveva visto il mare per la prima volta in vita sua. Appena arrivato davanti a quella immane massa d’acqua che si muoveva da tutte le parti mandando un odore mai sentito che si mescolava a quello del catrame delle navi, gli si erano rizzati tutti i peli del corpo e le gambe gli si erano piantate a terra come se all’improvviso avessero messo radici.
Avevano dovuto trascinarlo come un ciuco imbizzarrito, perché ormai erano già state pagate le centocinquanta lire del biglietto e le cento del sensale che ci volevano per partire, e l’avevano spinto per forza nella stiva.
Aveva vomitato per tutto il tempo che era durata la traversata. Con le budella che gli si arrotolavano e lo stomaco che sobbalzava guardava dagli oblò quell’elemento nemico che all’alba e al tramonto si tingeva di sangue. Lo immaginava popolato di mostri ignobili che presto avrebbero risucchiato il bastimento, ma non poteva parlarne a nessuno perché nessuno capiva il suo dialetto, e lo spaesamento l’aveva reso solitario.
Mentre si rigirava senza prendere sonno, la notte, si chiedeva quale peccato avesse mai commesso, perché non può essere che un cristiano timorato di dio, senza avere fatto niente, venga mandato all’inferno mentre è ancora in vita.
L’unica cosa che gli impedì di perdere la ragione fu un sacchetto di olive nere sotto sale che sua madre gli aveva dato prima di partire. Ne mangiava una ogni sera, masticandola lentamente insieme al pane che metteva da parte a mezzogiorno, e nel sapore che sprigionava quella carne salmastra riusciva per un attimo a ricordarsi chi era, a ritrovare il volto dei familiari, il fiato caldo dei fratelli che dormivano con lui la notte, il brontolio degli animali, gli odori e i suoni di casa sua, e a trasformare l’angoscia in nostalgia, lo sgomento in rimpianto, la pazzia in rassegnazione.
Una notte di tempesta, sballottato dalle onde, mentre vomitava dalla balaustra, si era chiesto disperato come aveva potuto ridursi in quel modo e si vergognò talmente che avrebbe voluto lasciarsi andare per sempre a quell’acqua nera che temeva tanto. Ma poi gli era venuto un pensiero, come una mano in mezzo alle onde a cui aggrapparsi. Giurò a se stesso che se mai fosse uscito vivo da quell’incubo, una cosa così a suo figlio non sarebbe mai toccata. Avrebbe tenuto i piedi ben piantati per terra, suo figlio, nessuno l’avrebbe mai costretto ad avventurarsi in posti che i cristiani non dovrebbero visitare nemmeno in sogno. Non avrebbe mai firmato con una croce la sua condanna a morte” (pagg. 70,71,72).
“Giuseppe [zi’ Giuseppe, uno stregone eremita che, si diceva, fosse nato prima di Gesù Cristo – n.d.r] prese una carta da un mazzo, glie la mise in petto, poi la ritirò e la osservò a lungo. Lucrezia [madre di Rocco – n.d.r] lo lasciò fare, apprensiva. Giuseppe rimise la carta nel mazzo. Mescolò, poi la fece tagliare. Le carte erano diverse da tutte quelle che Lucrezia aveva mai visto. Su una c’era un cane, su un’altra una vampa di fuoco, su un’altra tre cuori. Non è fattura. E’ ‘mbasciata. Fece il segno della croce sulla fronte di Rocco, gli fece aprire la bocca e gli fece il segno della croce anche sulla lingua. Poi si mise un dito in un orecchio e restò così a lungo, in ascolto. Disse a Rocco di uscire e di aspettare fuori.
Il figlio e la madre sono legati, disse a Lucrezia.
Prese un filo di lana che si arrotolò intorno agli indici e chiese a Lucrezia di tagliarlo coi denti. Le porse uno specchio e le diede da fare la radiografia. Lucrezia moriva di vergogna, ma si fece forza per suo figlio. Rocco osservava tutto da un buco della porta. Vide sua madre aprirsi il vestito e riflettere nello specchio il seno bianco, giovane e fresco, mentre tutto il resto sembrava decrepito. Vide le mani di zi’ Giuseppe su sua madre, scostarle i vestiti, ed emergere tutto quel corpo giovane bianco e sodo, il sedere rotondo che un tempo aveva incantato suo padre, la pancia con l’ombelico ben disegnato, e la faccia e le mani da vecchia. Rocco restò abbagliato.
Aprì di scatto la porta e si affacciò all’interno. Il contrasto dell’ombra con la luce di fuori gli impediva di vedere. Si avventò su Giuseppe tempestandolo con i suoi pugni da bambino. Basta! Basta! – gridava. Poi si rivolse alla madre. Andiamo via, disse, in perfetto italiano. Lucrezia si tirò su il vestito e cadde in ginocchio baciando i piedi di zi’ Giuseppe, bagnandoli con le lacrime, come Maddalena fece con Cristo” (pagg. 113, 114).
Rinuncio alla trascrizione delle pagine 173-179 perché sono troppe. In esse è raccontata la gravidanza difficile di Alba, i suoi sogni di “luci colorate che non aveva mai visto” e i sogni, le sensazioni, i ricordi prenatali del nascituro.
A pag. 236, una delle ultime, finalmente l’Autrice confessa:
“Non è facile raccontare questa storia a chi non conosce la valle del Basento, il cielo celeste come i colori a matita dei bambini, i pendii che il grano rende verdi a primavera e gialli d’estate, i fuochi nelle stoppie, i tralicci per l’estrazione del petrolio, i paesi agonizzanti sulle colline, il volo del nibbio.
Cosa c’entri con me non saprei dirlo. Somiglia all’espressione che mi scopro in faccia certi giorni, quando mi guardo nello specchio di sfuggita. A stati d’animo che mi assalgono all’improvviso, così profondi che sembrano esistere da prima che io nascessi. Somiglia alle domande che mi faccio e alle risposte che a volte trovo senza cercare…”.
Altri avrebbe messo queste righe e le successive nella premessa. Ma non so se avrebbe fatto bene. Per me è stato bello trovarle qui. E’ come una confessione di impotenza, un volersi giustificare, un cercare ragioni profonde nella propria terra, nelle proprie emozioni, negli stati d’animo ancestrali, nei propri antenati, nella storia, credere di trovarle e perderle senza sapere come e perché.
L’opera si chiude con un senso di nostalgia profonda per un paesaggio, rimasto in piedi per millenni e in pochi anni violentato, “deflorato” con casematte, piloni, cartelli pubblicitari.
“Lei che ci aveva scalciato contro, adesso si rammaricava della sua perdita e ne celebrava in silenzio un funerale senza lacrime”.
Carlo Levi aveva gettato luce sull’ombra che è nel nome della Lucania (“lucus a non lucendo”) e sulla sofferenza dei reietti violentati dal potere politico e sociale, ancora feudale e borghese. Qui si piange la perdita della bellezza e della vitalità del paesaggio. E’ la mazzata finale che molti popoli, se non tutti, oggi potrebbero denunciare. Pochi conoscono la valle del Basento, ma molti hanno visto cieli celesti, colline coltivate a grano, stoppie incendiate dai contadini dopo il raccolto, paesi medioevali arroccati sulle alture, voli di rapaci e altri uccelli, e tutti sono spettacoli ritenuti unici; e molti ancora hanno visto crescerci sopra ogni tipo di struttura di ferro e cemento, strade di asfalto, enormi cavalcavia spesso inutili. E’ anche per questo che le storie del libro di Mariolina Venezia ci commuovono: toccano corde uniche, radicate e diffuse nel genere umano, oggi.
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