Il Museo di Storie Naturali di Corvasta sorgeva in
mezzo a un largo pianoro di forma
circolare interamente occupato da rigogliosi giardini. Il palazzo del Museo, di
pianta ottagonale, aveva otto porte d’accesso, una per lato, e da ogni porta
partiva una lunga strada gialla che andava a perdersi nella foresta oltre la
circonferenza lontana, dove sorgevano, qua e là, altri palazzi della città. Era una mattina luminosa di primavera e l’affluenza
era ancora scarsa. Pagila e Astrugaria, giovane coppia di Warìti, erano entrati
da pochi minuti e procedevano a lenti passi attraverso le sale zeppe di reperti
e di grandi schermi sui quali erano proiettate vistose spiegazioni illustrate. Pagila poteva dirsi esperta di quel museo e ogni tanto
si avvicinava al suo compagno per rivelargli qualche segreto che non si poteva
ricavare facilmente dalle spiegazioni ufficiali. Gli oggetti che riempivano le
prime sei stanze erano scheletri, manufatti, piccoli resti imbalsamati di
creature estinte, ricostruzioni plastiche di animali, piante e ambienti
preistorici, tutti ritrovati nel pianeta. Ma Pagila sapeva che dalla settima
stanza iniziavano i reperti innumerevoli provenienti dall’universo e dai suoi
miliardi di stelle e pianeti che ogni buon saudariano era curioso di conoscere
almeno in parte. Quando ebbero abbandonato la sesta sala e si trovarono,
sorridenti e soddisfatti, nell’atrio intermedio che li separava dalla settima,
con porte a chiusura ermetica, Pagila era ansiosa di mostrare al suo caro amico
gli oggetti incredibili che ricordava di aver visto l’anno precedente. Ma quando la porta automatica si aprì fu sbalordita
vedendo che tutto quello che ricordava non c’era più e tutto quello che vedeva
era ignoto per lei. Al centro della sala, su un piedistallo, una creatura
imbalsamata molto simile a uno di loro, un vecchio Warìti, sembrava fissarli
con uno sguardo severo e assorto. La creatura, vestita di una elegante tuta
blu, era ritta sulle gambe e teneva una tastiera di computer con la mano sinistra,
mentre l’indice dell’altra mano sembrava puntato verso i visitatori che entravano. I due giovani si avvicinarono timorosi e man mano si
accorsero che quell’indice e quello sguardo erano rivolti dietro di loro.
Perciò si voltarono e videro un grande schermo sopra alla porta d’ingresso, sul
quale lampeggiavano ora rosse e violente eruzioni vulcaniche, ora onde
spaventose che si abbattevano su atolli, ora enormi masse ghiacciate che
crollavano in un mare sconvolto, ora boschi incendiati e stormi di uccelli impazziti
intorno a nuvole di fumo. Quando tornarono a camminare verso il vecchio
imbalsamato e arrivarono vicino al piedistallo, molto più alto di quel che
sembrava all’entrata, lessero su una targa: “Homo stultus insipiens”. Pagila volle leggere anche le spiegazioni che
comparivano sugli schermi lungo le pareti della stanza, dove non erano esposti
altri oggetti. Lesse ad alta voce, come se il suo amico non ne fosse capace: “L’esemplare esposto al centro di questa sala fu
portato sul nostro pianeta da una squadra di esploratori che riferirono di
avere assistito a una catastrofe temporanea imprevista del pianeta Terra e di
avere salvato a stento quell’unico indigeno. L’uomo, chiamato Martino, visse tredici
anni tra noi, accolto con tutta la pietà e commiserazione di cui i saudariani
sono capaci con gli alieni di ogni colore. La comunità scientifica concepì il
progetto di modificare il suo codice genetico rivelatosi difettoso per poterne
reimpiantare la stirpe sul pianeta che frattanto si andava rigenerando
naturalmente. Questo fu uno dei pochi progetti saudariani risultati
irrealizzabili nella nostra storia. Ma la ricerca continua almeno per
sciogliere i nodi più intricati del programma genetico umano che, a detta di
alcuni esperti saudariani, appare molto simile al software più usato nei
computer terrestri. I geni degli uomini avevano caratteristiche rimaste
ancora oggi misteriose. L’indole sanguinaria e predatoria che, generalmente, si
indirizzava contro individui della stessa specie e, solo in brevi periodi
felici, sembrava pacificarsi riemergeva ogni volta con una virulenza che non
lasciava adito a illusioni. Martino, tuttavia, sembrava stranamente diverso dagli
altri. In lui era stata osservata in più occasioni la rara capacità di azzerare
ogni impulso aggressivo, di riconoscere gli errori fatti, di ascoltare le
critiche con attenzione, di ridere di se stesso e di essere disposto a
correggersi. Per questo, in un primo momento, i nostri scienziati credettero
possibile la restaurazione genetica che l’avrebbe reso idoneo a instaurare
sulla Terra una nuova storia di stabile civiltà. La Comunità Scientifica era pronta
a tentare, dopo l’intervento genetico, la riproduzione in vitro o, in
alternativa, la riproduzione naturale con la collaborazione della giovane
ricercatrice Carsidia che, a questo scopo, si era offerta spontaneamente, e
alla quale va tutta la nostra gratitudine per la preziosa attività di
assistenza all’alieno. La collaborazione di Martino al progetto fu completa e
incondizionata, ma questo non poté impedire il fallimento di ogni tentativo di
correzione genetica. La primitiva diagnosi di malvagità congenita, come un
peccato originale, una macchia eterna indelebile, presto si rivelò ingenua e
superficiale. C’era in quella specie animale una tendenza irremovibile alla
contraddizione razionale e alla complicazione che portava gli individui meno
titubanti a pretendere di ergersi a guide indiscusse, talora elette dai popoli,
e a scrivere leggi e contratti incomprensibili e vessatori, dai quali le
vittime, prescelte o casuali, difficilmente potevano districarsi. Poteva
sembrare individualismo eccessivo, diffidenza verso il resto dell’umanità, ma
il più delle volte era semplice stupidità che impediva ogni possibilità di
accordo. Solo così si spiegano quelle guerre tra diverse nazioni o fazioni che
duravano centinaia di anni fino alla distruzione totale di una parte o ad un
provvido regresso tecnologico tale da impedire ai contendenti di incontrarsi,
di riconoscersi come nemici, di ricordare il sangue versato. Ogni volta che uno studioso umano si trovava di fronte
a un problema aveva l’abitudine, apparentemente sana, di circoscriverlo in confini
invalicabili, e, ciò facendo, trascurava aspetti fondamentali che annullavano
qualunque soluzione parziale. Ad esempio, se uno si metteva a cercare soluzioni
al degrado ambientale, quando non cadeva nell’errore di limitare lo studio a un
territorio delimitato, dimenticava che, col passare degli anni, la popolazione
mondiale, colpevolmente istigata a riprodursi senza limiti, cresceva tanto da
vanificare qualunque rimedio. Questa incontenibile tendenza alla limitazione, alla
frantumazione dei problemi, spesso integrata da una uguale tendenza,
apparentemente opposta, alla generalizzazione, portò l’umanità a diventare una
folla di specialisti insolenti e superficiali, in contrasto con il seguente
principio enunciato in uno dei periodi fiorenti della storia terrestre: ‘Homo sum et umani nihil a me alienum puto”. Abbiamo riportato il principio così come è stato
scritto in un volume terrestre, nella lingua aulica chiamata ‘latino’, parlata
per molti secoli in una penisola chiamata ‘Italia’ e in molti territori
circostanti. Questo testo significa: “Io sono un uomo e pertanto non posso ritenere
estraneo a me niente di ciò che è umano”. Quale sia la ragione per cui tale prezioso principio
sia stato abbandonato è incomprensibile per qualunque saudariano. Ricordiamo
che in quello stesso periodo, chiamato ‘Rinascimento’ italiano, visse – e fino
all’ultimo fu apprezzato – uno scrittore che considerò l’assassinio un ottimo
strumento di attività politica e amministrativa. Gli specialisti si raggruppavano in circoli,
congreghe, corporazioni, al fine di propugnare gli interessi degli accoliti in
aperto e strenuo contrasto con gli altri gruppi. Molti dissero di voler difendere
i loro diritti che però, spesso, erano contrari ai diritti fondamentali di
qualunque essere vivente. In certi circoli si arrivò a credere di potere
conservare in eterno il diritto a mangiare e a bere quando era evidente che il
cibo e l’acqua erano ormai insufficienti per il numero enorme di abitanti della
Terra, a cui l’uomo aveva inferto colpi mortali con le emissioni mefitiche
delle sue macchine infestanti. I filmati proiettati sullo schermo indicato dal
Martino mummificato mostrano i grandi sconvolgimenti che avvennero nei due
millenni successivi alla scomparsa dell’umanità. Attualmente, come abbiamo già
accennato, la terra e la sua biomassa, liberata dalla specie dannosa, sembra
avviata ad una felice esistenza per altre migliaia di anni. La comunità scientifica saudariana continua a tenere
questo interessante pianeta sotto osservazione nella speranza di risolvere i
suoi enigmi e di vedere evolversi finalmente specie più adatte ad una
convivenza pacifica e felice. Si seguono con attenzione alcuni cetacei, certi
elefanti, le cince e i pappagalli cinerini. I cittadini in visita a questo reparto sono invitati a
contribuire, nei modi previsti dalla Direzione del Museo, ad ogni tipo di
ricerca sul pianeta Terra, in quanto ogni buona idea può servire alla soluzione
di analoghi residui problemi della nostra Civiltà”. Terminata la lettura, Pagila sorrise al suo compagno,
gli porse la mano e lo condusse verso l’uscita. |