La cerimonia dell’esame fu un rito pubblico. Martino
fu condotto in una piazza del paese ‘protetto’ e messo in una gogna. I due
Felpa giganti armati di mitra, che l’avevano catturato la notte precedente, si
misero a guardia ai lati della gogna in silenzio. Il prigioniero, terrorizzato,
si guardò intorno. La piazza non era completamente piana. Qua e là sorgevano
dune di sabbia ricoperte di erbe ed arbusti. Alcuni pochi cittadini, Felpa e
Wariti, si avvicinarono e cominciarono a dileggiare l’uomo, a sghignazzare e a
conversare allegramente tra loro. La voce doveva essersi sparsa, perché da tutte le
parti vennero altri alieni muniti di sedili e presto divennero una folla
schiamazzante. Poco dopo, calando dalla duna più vicina, arrivò un
personaggio importante, un dignitario, forse l’esaminatore, trasportato in una
specie di lettiga e seguito da un gruppo di quattro Felpa giganti che tiravano
per il muso un animale. Martino li guardò avvicinarsi e il suo terrore salì
alle stelle quando si accorse che l’animale era un gran rettile, simile a un
coccodrillo gigantesco. I robustissimi Felpa lo gettarono in un avvallamento
acquitrinoso poco distante, e il rettile si immobilizzò con il corpaccione
contorto e le orribili fauci minacciosamente spalancate. L’uomo, per vedere il
bestione, doveva torcere il collo, ma non riusciva a distogliere lo sguardo da
quel mostro al quale, pensava, sicuramente sarebbe stato dato in pasto. Davanti a lui e ai suoi guardiani, ad una distanza
considerevole, oltre la folla, fu issato un grande schermo. La manovra
distrasse momentaneamente l’uomo dalla sua paura. Poi il mostro emise un
tremendo ruggito che coprì le grida della folla e, in quel momento,
incredibilmente, con una rapidità inaudita, cominciò a calare la notte:
un’enorme calotta nera andava oscurando i raggi del sole. Quando il buio fu completo e gli schiamazzi
diventarono fievoli bisbigli, sullo schermo apparve un disco azzurro che
s’ingrandiva sempre di più. Martino capì presto che si trattava di un pianeta,
sì, con la sua atmosfera, con nuvole biancastre cangianti. Sì, quando il disco occupò
quasi tutto lo schermo, riconobbe la terra, la sua Terra. Perché glie la
stavano mostrando? Era una vecchia ripresa o l’immagine generata da un
telescopio, frutto miracoloso della tecnologia saudariana? Il suolo terrestre,
con mare, monti, campi, fiumi e città era sempre più visibile nei minimi
dettagli, e presto fu chiaro il globale sconvolgimento che stava rendendo
inabitabile il pianeta: eruzioni vulcaniche continue, piogge, saette
interminabili, maremoti, macerie. E qualche altoparlante da qualche angolo
della piazza riproduceva tuoni e boati. L’avvicinamento al suolo si interruppe, ma l’attività
tellurica e atmosferica rimase ben visibile come una gran pentola in
ebollizione con un brontolio inarrestabile ed esplosioni frequenti. Dopo qualche minuto il volume del sonoro si abbassò e
l’esaminatore, ritto davanti al prigioniero, parlò. “Uomo, ora penso che tu abbia capito perché ti abbiamo
comminato la punizione della gogna e il terrore che t’incute quella bestia
feroce”. Tacque un istante guardando il prigioniero. Poi si
voltò verso la folla silenziosa e indicò lo schermo. “Quello che vedi là è il tuo pianeta distrutto. E’ di
nuovo nella condizione primordiale in cui, con sforzo inaudito, nacque e si
sviluppò la vita, che tu hai disprezzato e combattuto per i tuoi loschi e
futili interessi. Hai voluto ciecamente annientare ciò che credevi avverso
nella natura. Non hai mai voluto accettare che la natura rigogliosa, in tutti i
suoi aspetti, fosse l’unica condizione che giustificava la tua esistenza. La
tua stupidità è ridicola. Non siamo noi a punirti. Sei tu che hai scelto il tuo
rovinoso destino”. “Ma che vuole questo da me?” cominciò a pensare
Martino “Che vogliono questi? Io che c’entro?”. Poi, mentre l’oratore indugiava in un’altra pausa
d’effetto, si fece coraggio e gridò: “Non sono stato io! Io non c’entro! Gli altri, i
potenti, le multinazionali, i perfidi americani guerrafondai e nemici di ogni
intervento a favore dell’ambiente, sono loro i responsabili di questo
scempio!”. Mentre chiudeva la bocca, si meravigliò delle
scempiaggini che, sulla terra, non si era mai sognato di proferire. E la folla
scoppiò in una grassa risata. “Povero omuncolo!” riprese il giudice “Tu ti sei
voluto definire ‘specie intelligente’ e hai mostrato di essere stupido. Ma tu,
individuo, cittadino incapace, perduto nell’assurdo godimento di qualcosa che
hai chiamato ‘benessere’, e che troppo tardi hai scoperto quanto profondo fosse
il malessere che esso andava generando, non hai mosso un dito, non hai detto
una parola e non hai mai voluto nemmeno pensare alla soluzione del tuo
problema. Che diavolo facevi, chiuso nella tua casa comoda e asettica? Perché
continuavi a consumare ettolitri di acqua sottratta ai boschi e agli altri
animali solo per fare la doccia? Perché volevi sentirti possidente di una o due
automobili inquinanti parcheggiate ai lati delle tue strade da cui raramente
potevano allontanarsi per più di uno o due chilometri? Perché hai continuato a
premiare i venditori di veleni, i veri veleni, non le chiacchiere maligne che qualche
buontempone definisce veleni? Perché hai continuato a prestar fede a chi ha
voluto definire sacra non la vita, ma solo il suo inizio e poi, chi se ne frega:
ognuno ha il suo libero arbitrio? Perché non hai voluto occuparti, almeno un
po’, di quello che è un prezioso, indispensabile servizio alla vita e cioè la
ricerca di un freno, il più indolore possibile, all’espansione demografica
della vostra specie perniciosa? E’ chiaro che non si dovrebbero prendere a fucilate
gli individui in eccesso, come facevate con i cinghiali o i cervi nei vostri
parchi, ma dovevate prevedere e provvedere a limitare le nascite prima,
imbecilli, molto prima che diventaste 4, 6, 8 miliardi. Invece, chi scatenava guerre
e carestie ed esportava niente altro che povertà e disperazione, forse
conosceva il problema e non si curava di procurare sofferenze atroci a milioni
di adulti e bambini, pur di scongiurare il pericolo di dover condividere con
altri popoli le sue ricchezze e mettere in discussione il suo tenore di vita… o,
più probabilmente, era ancora più imbecille degli altri”. “Ma che c’entro io?” ribatté il prigioniero “Io non
avrò mosso un dito, ma ho sempre protestato, quando ne ho avuto l’occasione ho
cercato di fare arrivare in alto qualche piccolo messaggio di buonsenso. Ma i
miei messaggi non erano considerati, non avevano il peso che hanno quando a
lanciarli sono alti prelati o autorevoli magistrati. Venivano presi come
aggressioni ingiustificate, rimproveri infondati, ingerenze negli affari degli
altri. Ho ricevuto in cambio solo messaggi di insulti”. “Non ti chiediamo di giustificarti, uomo. Tu, forse,
sei l’unico superstite della tua specie, perciò noi, qui, in questa piazza,
possiamo trasmettere solo a te il NOSTRO messaggio di protesta. Forse avremmo
dovuto farlo prima, quando la catastrofe non era ancora irreversibile, avremmo
dovuto paralizzare la mano di chi stava per commettere delitti imperdonabili
contro tutte le specie viventi, ma qualcosa e qualcuno ce lo ha impedito…
D’altronde anche tu, studiando bene la storia, vedresti quanto sia difficile
correggere un tipo di comportamento scritto nel patrimonio genetico.
Dall’inizio della vostra storia, per 5000 o 10000 anni, siete sempre ricaduti
negli stessi errori. E ormai non c’è più niente da fare”. La folla ormai era eccitata e molti alzavano la voce
per emettere i loro giudizi di condanna. L’esaminatore tacque alcuni minuti aspettando che gli
animi di placassero e le voci tacessero. E quando ciò avvenne riprese: “Dunque noi non possiamo concederti di rimanere a
soggiornare nella nostra zona protetta. Gradiremmo che i geni della specie
umana non proliferassero più e coloro che tra poco ti riaccoglieranno nella
cosiddetta zona libera farebbero bene a curare che questo non possa avvenire in
nessun modo. Hai visto e udito abbastanza del tuo mondo? Vuoi esplorarlo più da
vicino?”. Piano piano Martino era arrivato a sentirsi
rassicurato. Ormai sapeva che sarebbe stato liberato e ripreso sotto la tutela
di Carsidia. Ma rimase sorpreso e perplesso per la domanda che il dignitario
gli aveva posto. “Esplorarlo da vicino? Come?” disse l’uomo. “S’intende, sempre con questo mezzo telescopico, non
direttamente con il tuo corpo. Beh, è ora di liberarlo” disse ai guardiani. Il gran coccodrillo emise un altro possente ruggito, e
l’uomo si aspettò che la calotta nera si ritraesse, ma ciò non accadde. I
guardiani tolsero il prigioniero dalla scomoda posizione in cui l’avevano
costretto e lo accompagnarono in un rozzo edificio in fondo alla piazza, mentre
i cittadini cominciavano ad alzarsi e ad andarsene, soddisfatti di quello strano
e, tutto sommato, ingenuo spettacolo di sadismo. Anche l’amico Assurgaria gli
andò dietro. L’edificio era di soli due piani. Salita una breve rampa di
scalini, si trovarono in una stanza buia con uno schermo di dimensioni ridotte,
rispetto a quello che era in piazza, sul quale la Terra continuava a friggere
nel suo inferno. Lo schermo era su un tavolo. Davanti c’era una tipica tastiera
e un mouse, ma molto più grandi del normale, quasi il doppio. Martino indovinò
subito per chi erano costruiti quegli attrezzi, e infatti anche le seggiole
sembravano fatte apposta per loro, per i Felpa giganti. Uno dei due si accomodò
e impugnò il mouse per giganti. Martino e il Felpa normale si arrampicarono su
altre due sedie. “Vuoi che ci avviciniamo?” fece il Felpa operatore con
una incredibile voce tonante che, fino a quel momento, non aveva avuto
necessità di farsi sentire. “Non mi pare che vedremmo qualcosa di buono sotto
questa lava ribollente” disse Martino “Piuttosto spostiamoci verso altre parti
del pianeta… Ma qui dove siamo? Che latitudine, che longitudine?...”. Il Felpa gigante con voce tonante rispose: “Siamo… a circa 5000 metri di altezza su quello che
era New York. Se vuoi andiamo a vedere l’Europa”. “D’accordo, andiamo”. Il suolo rosso di rocce fuse iniziò a scorrere e ad
allontanarsi, come se fossero in una navicella spaziale e stessero decollando
per esplorare realmente la superficie terrestre. Subito apparve il blu
dell’oceano Atlantico e dopo meno di un minuto l’astronave virtuale si
riabbassò rapidamente finché la costa di Spagna e Portogallo fu visibile. In
quel punto… andò in picchiata su Oporto, di nuovo fino all’altezza di 5000 metri,
e iniziò la trasvolata verso l’interno della Spagna. Il suolo visibile aveva un
aspetto quasi normale! L’atmosfera era offuscata solo da qualche grossa nuvola
nera. Le città non erano visibili. Presto apparve un lungo fiume tortuoso.
L’uomo, con un po’ di vergogna per l’ignoranza della geografia del suo pianeta,
chiese il nome del fiume. Questa volta il gigante non ebbe bisogno di parlare:
con un clic fece apparire ‘Rio Douro’. Dopo un volo, che a Martino sembrò
interminabile, durante il quale apparvero colline, valli, strade, centinaia di
campi tra cui alcuni perfettamente circolari, come fossero stati disegnati col
compasso, altri fiumi, rari laghi, zone semidesertiche, ecco di nuovo la costa
marina, Barcellona, il Mediterraneo occidentale. Su Barcellona Martino chiese
di abbassare la quota: le case c’erano, c’erano le strade con le automobili
parcheggiate, gli alberi, il porto, le navi, le barche, ma nessun animale.
Martino volle percorrere le strade, i vicoli: nessun uomo, nessuna donna, né
morti né vivi, fruscìo di brezza marina e, per il resto, silenzio di cimitero.
Fu preso da un lieve sgomento, come quando si visita appunto un cimitero o le
rovine antiche di una città tanti secoli prima viva e fiorente. Continuando l’esplorazione, trovò alcuni cadaveri di
topi, gatti e una civetta. Nel cervello dell’uomo a poco a poco nacquero alcune
domande. Nessun animale sembrava sopravvissuto... ma le piante? Volle
avvicinarsi ad un gran pino mediterraneo. Ne riconobbe la corteccia rugosa, gli
aghi, le pigne, i pinoli caduti a terra. Era vivo e vegeto. Perché? Fu sul punto di chiedere spiegazioni, ma se ne astenne
appena capì che in quella città non dovevano esserci stati fenomeni vulcanici
capaci di bruciare ogni cosa. Probabilmente era passata una nube tossica per
gli animali ma, comprensibilmente, non per le piante. E la nube era passata di
notte. Era chiaro. I cadaveri di animali dalle abitudini notturne lo provavano.
Se avesse potuto entrare nelle case avrebbe sicuramente trovato resti umani, ma
con quel telescopio era impossibile, anche con la poderosa tecnologia
saudariana. Un altro dubbio assalì Martino: nei pochi minuti del
viaggio dovevano essere passati dalla notte al giorno e la zona di New York era
stata ben visibile… Ah, già. La lava incandescente e le folgori continue
avevano fornito l’illuminazione sufficiente. Con l’angoscia che saliva, Martino fu pronto a
continuare il viaggio. In un minuto sorpassarono la Corsica e scesero su
Roma. Ad una quota di 500 metri tutto sembrava a posto, ma nessun movimento era
visibile. Scesero ancora. Erano proprio sulla basilica di San Paolo fuor le
mura. Martino volle raggiungere il Tevere lì vicino e
percorrerlo contro corrente. Ai lati del fiume le zone verdi, le strade e gli
edifici sembravano intatti, come li ricordava. Vide il ponte di ferro, le
chiatte ancorate, i ponti, l’isola Tiberina, castel Sant’Angelo, case, fabbriche,
piscine, campi da tennis. Uscì da Roma e continuò a seguire il fiume. Vide
Fidene, Monterotondo, Torrita Tiberina, Orte, Perugia, Umbertine, Sansepolcro, sempre
più su fino alla fonte sul monte Fumaiolo. Qui fu sicuro che, almeno nelle
regioni centrali dell’Italia, sulle rive del fiume che aveva permesso almeno la
vita dei Latini e degli Etruschi, non c’era più anima viva. E nelle acque
sicuramente, anche se non poteva assicurarsene, non c’erano più lucci, carpe,
cavedani, persici, scardole, triotti, vaironi, trote. Gli venne quasi da
piangere. Ma poco dopo la luce entrò nel suo cervello, e lui non poté frenare, prima
un lieve sorriso, poi una bella risata in un crescendo che non sembrava più
finire. I tre alieni lo guardavano stupefatti. Quando se ne accorse cercò di
calmarsi, ma ormai per lui era tutto chiaro. Almeno in Italia la vita animale
quasi sicuramente era estinta, ma le piante si erano salvate e alla fine
avrebbero ricoperto tutto il suolo dello stivale. Ecco, c’era davvero da stare
allegri. E mentre lo pensava cominciarono a scendere rivoli di lacrime sulle
sue guance. E i tre alieni continuavano a guardarlo stupiti. Lui si sentiva
come quando, da bambino, si svegliava nella sua stanza buia e, dopo aver
chiamato più volte la mamma, si rendeva conto di essere solo. Che avrebbe fatto
ora, in questo pianeta, con questi alieni, senza più moglie, figli, fratelli e
sorelle, nipoti, amici? Eppure, tra le lacrime, gli venne in mente una
possibilità: tornare sulla Terra, in Italia, per vedere da vicino che cosa ci
fosse rimasto. Sì, perché, non sapeva bene se fosse possibile, ma forse
qualcuno poteva essere sopravvissuto… nel sottosuolo, nelle catacombe romane,
oppure su qualche altura in cui la nube non fosse arrivata. Forse sua moglie e
i suoi figli erano nascosti da qualche parte e lo aspettavano. |