“No. Carsidia non deve accettare le
violenze che il
suo capo le infligge senza nessuna possibilità di difesa. Sulla
terra questa
forma di persecuzione si chiama ‘mobbing’. E ci sono leggi
che la puniscono. E su Saudar? Altro che civiltà. Questo
è un mondo
mostruoso”. Era di questo genere il pensiero che
assillava Martino
quella notte nel sonno agitato e interrotto da molti risvegli. Di notte, se il giorno precedente non si sono
provate particolari
emozioni, si dorme in tranquillità e le ore di riposo sono una
cura naturale
ineguagliabile per molte malattie. Quando invece le emozioni sono state
forti,
come quelle che Martino aveva provato quel giorno, i cattivi pensieri
ingombrano i nostri sogni e sembrano allontanare ogni speranza di
serenità.
Eppure, per sopravvivere, è necessario tornare alla calma, e
pare che il nostro
organismo lo sappia e abbia precisi e puntuali meccanismi che mettono
ordine
nei pensieri e nei sentimenti. L’uomo rapito dalla sua terra e
deportato sopra un
altro pianeta chiamato Saudàr aveva molte ragioni obiettive per
essere
preoccupato e ansioso. La ragazza incredibile che lo aveva accolto al
suo primo
risveglio su quel pianeta lo aveva certamente rassicurato con le sue
parole e
il suo comportamento amichevole, ma il sospetto che Felpa e Wariti,
sotto
l’aspetto pacifico, nascondessero una natura feroce e aggressiva,
tornava al
minimo indizio: il graffio sulla gola di Carsidia, al ritorno dalla
corsa con
cui si era allontanata dalla stanza, inseguita dal suo capo Achillipo,
era un
gravissimo indizio. Dov’era Carsidia in quel momento? Dove
dormiva? Era
sola o con un compagno o un marito? Martino, dovevano essere le 4 di notte
quando, ormai
completamente sveglio, si alzò, indossò la tuta verde e
uscì nel corridoio. Si voltò a destra e a sinistra ma non
vedeva niente. Fece un primo passo verso destra e subito una
luce
fioca si accese. Si fermò. Guardò intorno. Non
si vedeva nessuno. Non
si capiva dove fosse la lampada accesa. Pensò di andare a cercare Carsidia, ma
come e dove?
Voleva indagare, capire. Si ricordò del telefonino che aveva in
una tasca della
tuta, ma non voleva allarmarla né preavvertirla delle sue vaghe
intenzioni di
indagare per conto suo e arrivare a capire qualcosa di più sul
nuovo mondo
senza suggerimenti o indottrinamenti. Ma era veramente in grado di penetrare in
qualcuno dei
segreti di quegli strani esseri? Certo, nella sua mente il mistero
incombeva,
anche se Carsidia, almeno in apparenza, si era sforzata di fornirgli un
buon
numero di notizie interessanti e, tutto sommato, rassicuranti. Senza un piano e senza idee precise percorse
il
corridoio fino in fondo, girò a sinistra e, dopo pochi passi,
riconobbe nella
penombra il finestrone da cui aveva visto il gran sole di quel pianeta
all’alba
del giorno precedente. Si accostò ai vetri. Non si vedeva quasi
niente. Una
fosforescenza appena percettibile proveniva dai ciottoli gommosi del
cortile.
All’improvviso udì uno scalpiccìo e una voce bassa
incomprensibile. Si voltò
pronto a fuggire o a difendersi. Lo riconobbe subito e si
calmò. Era il Felpa amichevole che aveva
goduto con lui lo spettacolo del sole sorgente. Il felpa gli sorrise e gli parlò come
la radio di
un’emittente straniera. Poi, come se la radio si fosse
sintonizzata sulla
giusta frequenza, gli disse: “Ciao, amico. Come stai?” Martino non si meravigliò più.
Ormai aveva intuito
che, come la sua assistente, qualunque abitante di quel pianeta poteva
parlare
la sua lingua. Andò incontro al Felpa, gli diede una pacca sul
lungo braccio,
ricambiando così la pacca che aveva ricevuto il giorno prima, e,
sorridendo,
gli disse: “Bene, amico. Non riuscivo a dormire e sono venuto qui
per vedere
sorgere il sole”. “Bagalavah” disse il Felpa
“il grande astro dalle
lunghe lingue fiammeggianti sorgerà tra due ore”. Ah! Bagalavah era il nome del sole di
Saudàr. Il felpa
usava un linguaggio primitivo e immaginifico, forse pensando di rendere
più
comprensibile il discorso ad un essere molto meno evoluto di lui,
orgoglioso e
felice cittadino di Saudàr. “Bagalavah è bellissimo
all’alba” disse Martino “Non
l’ho ancora visto al tramonto, perché ieri pioveva. Ma
penso che, con le giuste
condizioni atmosferiche, anche il tramonto sia uno spettacolo da
ammirare, non
è vero?”. “Certamente, amico, qualche sera
è veramente
splendido, visto dal finestrone opposto.
Anche a me piacciono questi spettacoli naturali. In quei
momenti mi
sento davvero rilassato e in pace con me stesso e con tutto
l’universo”. Ecco, l’amico felpa era un adoratore
del sole, come
Martino e come tanti sulla terra. “Sai” disse Martino “sulla
terra si può vedere un bel
corpo celeste anche di notte: la luna”. Si sentì stupido, dopo averlo detto. “Eh, sì” fece il Felpa
“lo so. Noi purtroppo non
abbiamo una luna. E così la notte, dove non c’è
illuminazione artificiale, l’unica
luce è quella delle stelle sempre più lontane da noi.
Eppure qui in giro, nella
foresta e intorno al lago, si aggirano creature attive proprio di
notte, come
se ci vedessero”. Fu in quel momento che Martino si rese conto
che
stavano conversando a voce bassissima, per non disturbare i dormienti.
Stettero
un momento in silenzio guardandosi entrambi intorno, e la luce si
spense. Ma il
Felpa sollevò subito uno dei suoi lunghi bracci e la luce fioca
si riaccese. Martino sentì di potersi confidare con
questo alieno
pacifico. “Sai” disse “non riuscivo a
dormire perché sospetto
che alla mia… assistente… Carsidia – mi ha detto
lei di chiamarla così – sia
stato fatto del male”. Guardò l’alieno fisso negli
occhi per vedere la sua
reazione. L’alieno sorrise. “E’ quasi
impossibile su Saudàr… O almeno così
si dice”. Continuò a sorridere alla maniera dei
Felpa: un ghigno
quasi animalesco, simile a quello che hanno i nostri cani quando
scodinzolano
al padrone. Martino si sentì un poco rincuorato. “E tu come ti chiami?” chiese
all’amico Felpa. “Ma” fece il Felpa, come
spiazzato “Puoi chiamarmi…
Assurgaria. Vuol dire ‘Amico del mattino’”. Martino aveva sperato per un momento che il
Felpa
avesse un nome definitivo ma, purtroppo, la relatività
fondamentale di Saudàr
non aveva ragione di venir meno. “Vieni con me” disse Assurgaria
“Ti porto da
Carsidia”. “No, no” rispose l’uomo
tirandosi indietro “Non voglio
disturbarla. Non voglio svegliarla a quest’ora”. “Nemmeno io voglio svegliarla. Ti
faccio solo vedere
dov’è il suo dormitorio”. Ma cos’è questo, un collegio?
Pensò Martino e si
lasciò prendere per mano dal semi-gigante buono che lo condusse
per il
corridoio opposto a quello della sua stanza fino a una porta un
po’ più larga delle
altre. Il Felpa aprì la porta con grande
cautela ed entrò
tirandosi dentro l’uomo titubante. Per un lungo momento Martino
rimase al buio
completo. Si udivano diversi respiri di persone immerse nel sonno
profondo. Poi
si accese una luce prima rossa, poi verde, poi blu, e si videro sagome
di letti
e di persone distese sui letti. Martino riuscì a vedere il suo
accompagnatore
con una lampada in mano: era quella che emetteva quella luce
intermittente. Poi il Felpa si voltò, riaprì
la porta ed uscì
trascinandosi sempre dietro l’uomo. “Hai contato i letti?” chiese Assurgaria. “Ehm, no. Mi sembravano una
decina”. “Erano otto. Carsidia dorme nel sesto.
In questo
dormitorio alloggiano tutte le guide del nostro ospedale”. “Ma” chiese Martino “sono
tutte femmine?”. “Ah, sì. Sono tutte belle e
capaci come Carsidia… Più
o meno”. L’uomo rimase a pensare a testa bassa,
finché il Felpa
gli disse: “Vieni, amico. Torniamo al nostro osservatorio. La
luce del sole
comincia un po’ prima ad accendersi, a poco a poco. Possiamo
anche uscire e,
forse, vedere qualche creatura notturna al limitare della
foresta… O, forse, se
t’è tornato il sonno, puoi tornare a dormire”. “Ma che cosa sono queste guide
dell’ospedale?” chiese
Martino “E tu chi sei, un malato o una guida anche tu?”. “No, io non sono malato, e nemmeno tu a
quanto pare.
Nei nostri ospedali, se c’è un letto libero, chiunque
può avere alloggio. Io ci
sto solo di notte. Di giorno vado qui intorno a studiare gli animali di
questa
foresta. Sto scrivendo un trattato per l’Istituto Zoologico. Le
guide sono… voi
terrestri le definireste angeli, perché aiutano, confortano,
informano chi
viene loro affidato”. Mentre parlavano si avviarono verso
l’uscita. In breve
si trovarono fuori al freddo e al buio. Martino si tirò su il
cappuccio che,
una volta legato il laccio, proteggeva anche la bocca e il naso.
Assurgaria gli
porse un paio di occhiali che gli servirono per proteggere anche gli
occhi e lo
aiutarono a vedere qualche sagoma oscillante alla debolissima luce
dell’alba. Entrarono subito nella foresta e, alla luce
blu della
lampada del Felpa zoologo, poterono scorgere molte creature alate
spostarsi
velocemente da una chioma all’altra di quegli alberi millenari e
altre creature
fuggire nel sottobosco. L’esplorazione durò solo pochi
minuti. Nella luce blu
apparve un Felpa enorme armato di una specie di mitra. “Vattene Ferrogria” gridò
Assurgaria “Perché sei
qui?”. “Siamo venuti a prenderti”
gridò l’altro. Martino si sentì paralizzato dalla
paura, ma, con un
supremo sforzo di volontà, in un lampo afferrò il braccio
del suo compagno e lo
indusse a spegnere la lampada. Poi Assurgaria prese Martino per mano e
cominciò
a fuggire. Sbatterono contro l’enorme pelliccia di
un altro Felpa
e furono catturati. “Che succede?” chiese con
profonda angoscia Martino,
mentre, a scossoni, veniva trasportato, legato mani e piedi e appeso,
forse, a
un bastone. “Non preoccuparti” rispose
Assurgaria che gli
camminava accanto. “Ma che dici? Che vogliono farmi?
E’ finita, vero?”. “Non preoccuparti” insisté
il Felpa ‘amico’ “Non sono
pericolosi quanto ora ti sembrano”. “Tu sei pazzo!” piagnucolò
Martino “Perché mi sono
fidato di te?”. Sentiva che sarebbe finito sbranato da questi
superfelpa giganti. Presto la luce divenne più forte e
Martino poté vedere
il suo amico con le mani legate trottare e ansimare dietro a quei Felpa
guerriglieri
molto più grandi di lui. Poco dopo entrarono in una caverna o
una galleria e
continuarono a camminare di nuovo al buio. Quando arrivarono nella città protetta
procedettero
per strade affollate di Felpa e Wariti. Sembravano tutti allegri e
tranquilli,
ma nessuno si curava della processione di quei grandi Felpa che
trasportavano i
prigionieri. Entrarono in un palazzo simile a quelli
già visti da
Martino quando era con Carsidia. Li fecero entrare in una stanza vuota, con
una panca e
un finestrino con sbarre, slegarono l’uomo e chiusero la porta
dall’esterno con
due giri di chiave. Tra i due calò un silenzio
imbarazzante. Martino ormai
non si fidava più di quel Felpa. Si ricordò del suo
telefonino. Si spostò in un
angolo, mentre il Felpa, stanco, si stendeva sulla panca. Pigiò
il tasto verde. Subito Carsidia rispose: “So tutto. Non
ti
preoccupare. Segui i consigli del Felpa che è con te”. “Non so se sia prudente” disse
l’uomo cercando di parlare
quanto più basso poteva “Ho il sospetto che sia un
traditore”. “No. Stai tranquillo. Stasera ti vengo
a prendere.
Intanto osserva tutto. Vedrai, è interessante”. Carsidia chiuse il contatto e Martino
guardò il Felpa
che si era alzato sui gomiti e sorrideva come se niente di grave fosse
successo. Udirono una scampanellata. “Ci portano a pranzo” disse
Assurgaria alzandosi. Infatti la porta si aprì e due
carcerieri, un Felpa e
un Wariti, si presentarono tutti sorridenti. “Avanti, parassiti scansafatiche,
venite. E’ pronto in
tavola” disse il Wariti. I carcerieri si avviarono per il corridoio
lasciando
la porta aperta. I due prigionieri li seguirono. In pochi passi
arrivarono in
un salone che aveva tutta l’aria di un ristorante di stile
italiano. C’era anche
un odore appetitoso come di pesci e verdure arrostite sulla brace. Ed
effettivamente al centro del salone troneggiava qualcosa come un grande
barbecue fumante. I quattro sfilarono intorno al braciere.
C’erano proprio
pesci e verdure ad abbrustolirsi. Martino si guardò intorno.
C’erano molti
tavoli sparsi e persone che già avevano cominciato a mangiare o
ridevano e
conversavano. “Come è possibile?” disse
l’uomo al Felpa “Sembra di
stare in un vero ristorante terrestre”. “Questi protetti vi hanno
imitato” disse Assurgaria
ridacchiando. “Beh, la cucina sembra ottima”. La paura e la preoccupazione che lo avevano
assalito
durante il viaggio e poi nella cella avevano lasciato il posto a un
robusto
appetito. Ma prima del pranzo Martino chiese di andare al bagno. “In fondo a destra, scendi le
scale” disse il Wariti
“Ti aspettiamo al tavolo. Vuoi che ordiniamo anche per te?”. “Ah, grazie” rispose Martino
“Vorrei tutto: uno di
questi pesci e contorno di verdure” e si avviò verso il
luogo indicato. Si sbrigò in un attimo. Era curioso di
vedere,
annusare e assaggiare le vivande alla brace dall’aspetto molto
più familiare dell’immonda
poltiglia servita da macchine automatiche al refettorio
dell’ospedale. Avrebbe
gradito anche un buon bicchiere di vino. Quando raggiunse gli… amici – ma
erano amici? – al
tavolo, questi avevano già ordinato e ora una bella giovane
Felpa stava
servendo le bevande. Come? Una bella Felpa? Era davvero bella, come non ne aveva viste
nel mondo,
diciamo, normale. Era, ovviamente, un po’ pelosa, ma aveva un
seno procace,
anche quasi femminili e un sorriso molto accattivante. “Come sei arrivato fin qui,
omuncolo?” chiese il
Wariti. Sorrideva. “Omuncolo sarai tu”
azzardò Martino. Il Wariti attenuò il sorriso. “Dai, non ti sarai mica offeso!”. “No. Ma non sono venuto di mia
volontà”. “Ma... Non dicevo nella zona protetta.
Volevo dire
come sei arrivato su Saudàr”. “Appunto. Io non lo so. Qualcuno mi ha
portato fin
qui”. Intanto arrivò un’altra Felpa,
bella come l’altra, con
piatti fumanti che dispose sul tavolo. Il profumo era delizioso. Ma
prima
l’uomo provò un sorso della bevanda ambrata che si
trovò nel bicchiere. Niente
male! Sembra davvero vino! Vino di Frascati ma con un meridionale
retrogusto al
Marsala! A quel punto si dedicò al suo pesce,
già pulito e
guarnito con erbetta e fettine di un frutto simile al limone.
Delizioso! E
anche il contorno aveva un aroma e un sapore superbo. Martino divorò tutto in un baleno,
felice di non stare
lui sul piatto al posto del pesce. “Dopo pranzo” disse il Wariti
“ci sarà l’esame.
Vedremo se sarete ammessi”. “Esame?” chiese l’uomo
allarmato “Che tipo di esame?”. “Ehi, furbacchione! Non vorrai mica che
ti riveli in
anticipo le domande che ti faranno?”. Poi, rivolgendosi al Felpa: “Ma lo sa
che deve
sottoporsi all’esame?”. “Lo sa, lo sa” disse Assurgaria
“Forse non si
ricorda”. “Ah” disse Martino, ricordando
gli accenni di Carsidia
al territorio protetto e alle richieste di entrarci “Ma, abbiamo,
per caso,
chiesto asilo politico?”. Il felpa gli si accostò e gli disse
all’orecchio: “Non
preoccuparti. E’ solo una pratica formale. Non saremo ammessi e
ci
libereranno”. I due ‘carcerieri’ avevano visto
e sentito tutto, e
sorridevano soddisfatti. |