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Il pianeta Saudar

Capitolo 6

Arrivarono al deposito in pochi minuti. Carsidia guidò il suo veicolo fino in fondo alla fila e l’agganciò alla macchina precedente; poi si tolse la cintura di microrazzi, la mise in un cassetto della macchina e invitò Martino a fare altrettanto. Con qualche breve armeggio per capire il meccanismo di apertura Martino riuscì a slacciarla e a riporla nel cassetto indicato. Uscirono e iniziarono a percorrere la strada che li separava dall’ospedale. Si vedevano fulmini da ogni parte e si udivano tuoni poderosi. Incominciò a piovere e i due cominciarono a correre.
“Attento! – gridò la ragazza – grandina! Vieni qui!”.
Lo afferrò per un braccio e lo condusse sotto un albero gigantesco. Uno dei rami partiva dal tronco a non più di due metri dal suolo. I due stettero abbracciati in piedi al riparo del gran ramo, guardandosi intorno. Martino non aveva mai visto chicchi di grandine così grandi. Facevano un fracasso spaventoso. Il terreno circostante fu presto ricoperto da quelle enormi palle di ghiaccio, ma la precipitazione solida ebbe fine in pochi minuti, proprio come succede sulla terra. Martino tremava dalla paura e dal freddo, quando Carsidia lo afferrò di nuovo per un braccio e gli comandò di correre ancora.
Quando arrivarono all’ingresso le loro tute erano grondanti. Carsidia condusse l’uomo ad uno spogliatoio che si trovava a pochi passi dall'entrata, e là poterono lasciare le tute bagnate, asciugarsi ad un soffio di aria calda e indossare altre due tute asciutte.
Quando salirono le scale si tenevano per mano e ridevano come bambini dopo un gioco pericoloso.
Passando per il corridoio si sentivano voci, risa, musiche di radio o di televisori. Ormai era quasi sera. I degenti, forse, si stavano rilassando in quella maniera più o meno chiassosa, forse prima della cena o prima del riposo notturno. Martino si rese conto di quanto fossero simili a quelle umane le abitudini degli alieni. Nell’ultimo tratto di corridoio diversi Felpa e Wariti, che erano usciti dalle loro stanze, si avvicinarono ai due con aria festosa. Tutti ridevano allegramente e qualcuno non esitava ad elargire pacche affettuose. Il Felpa con ermellino o martora al collo si avvicinò a Martino e gli lasciò accarezzare la sua bestia bianca, pelosa e calda. A quanto pareva, tutti avevano saputo, chissà come, delle pericolose avventure vissute dai due in quella giornata e,  al loro rientro, li rincuoravano o li festeggiavano. Martino notò che ora, intorno a loro, c’erano Felpa e Wariti in numero quasi uguale, mentre le due mattine precedenti, andando a colazione, aveva visto soltanto Felpa nel corridoio. Ne dedusse che i Wariti fossero meno mattinieri dei Felpa. Poi, però, si ricordò che nel refettorio aveva incontrato anche alcuni Wariti. Quale delle due specie era più dormigliona? Ma non era un problema molto interessante per Martino.
Quando furono a pochi passi dalla sua stanza sentì una musichetta che gli sembrò familiare. Sì, era la musica che si sentiva quando si avviava il computer. Il fatto non lo preoccupò, ma fu curioso di vedere chi fosse stato a spegnerlo e riaccenderlo. Perciò corse ad aprire la porta della sua camera.  C’era il Rostro, il collerico Felpa capo di Carsidia. Martino era sempre convinto che fosse il capo.  Era in piedi e sbraitava come al solito. E c’era un altro Felpa che aveva tolto il coperchio al computer e manovrava qualcosa col suo lungo braccio sinistro sul retro dell'apparecchio mentre col destro premeva il pulsante del cd-rom. Martino vide che al posto del suo masterizzatore era stato installato un altro dispositivo di plastica trasparente. La faccia del Felpa gli parve preoccupata. Sì, gli parve che il Felpa fosse anche sudato.
“Ma che succede? – fece Martino – Si è rotto?”.
Il Rostro gridò qualcosa verso la porta d’ingresso.
Carsidia, che era rimasta a conversare con gli altri alieni nel corridoio, accorse subito al richiamo imperioso.
“Ah – disse la ragazza – non ti preoccupare. Stanno solo curiosando. Anche i saudariani sono curiosi. A Kabroska, poi, piace guardare nei computer e ripararli”.
Martino guardò prima il Rostro, poi l’altro Felpa. Qual era Kabroska?
A lato del computer c’era una pila di cd-rom che gli sembrava di conoscere. Sì, era il ComplexDesigner della Softcrim, in 12 dischi. Quando era sulla terra, aveva tentato invano di installarlo. Ora che ci faceva il Felpa? Voleva installarlo lui? Stava fresco.
“Qual è Kabroska?” chiese Martino.
“Ah, è il nostro tecnico superinformatico!”.
“E il Rostro come si chiama veramente?”.
“Achillipo”.
Mentre pronunciava quel nome tenne gli occhi bassi, come per deferenza verso il suo capo.
Ogni volta che sentiva un nome Martino si domandava per quanto tempo sarebbe rimasto in uso per la persona che lo aveva, ricordando quello che aveva detto la sua accompagnatrice: i nomi non si danno ai bambini alla loro nascita, ma si affibbiano a capriccio. Quelli di Saudar, pensava, non sono nomi, sono nomignoli, soprannomi, ‘nickname’.
“Vorrei vedere” pensava “come si farebbe in terra a controllare l'identità delle persone, se ognuno non avesse un nome e cognome. Eppure è proprio quello che succede in Internet. Se chiedi a qualcuno come si chiama, ti risponde 'Barbagianni' o 'Gippo da casa' o 'Falco Nero'. E ci sono quelli che cambiano nickname ogni giorno...”.
Pronunciato il nome del Rostro, Carsidia corse fuori, subito inseguita dal Rostro-Achillipo. Martino udì i loro passi allontanarsi velocemente e perdersi nel trambusto del corridoio. Così rimase solo con il tecnico Kabroska che continuava a lavorare al computer.
“Lascia perdere” gli disse Martino “Installare questa roba è un’impresa impossibile. Probabilmente l’hardware e il software non sono compatibili”. L'aveva detto come all'aria, senza sperare che l'alieno capisse.
Kabroska lo guardò con aria interrogativa e si alzò, con quell’aria minacciosa che hanno i seri professionisti quando si sentono punti nell’orgoglio.
“L’incompatibilità non ha senso sul pianeta Saudar” disse. E Martino apprese che anche quell’alieno, come Carsidia, capiva e parlava la sua lingua.
“Non ha senso questo arnese” proseguì il tecnico “Chi l’ha costruito deve essere afflitto da un feroce sadismo. E chi ha programmato il software di base deve essere un maniaco”. Lo disse quasi gridando.
Poi spense il computer, prese qualcosa da un suo borsone da lavoro e lo mostrò a Martino. Sembrava un piccolo righello di plastica trasparente.
“Vedi?” disse “Questa è memoria centrale, non quello stupido circuito intricato che sta là dentro”.
Lo depositò sul banco da lavoro accanto al computer e andò ancora a rovistare nel suo borsone, da cui, poco dopo, estrasse un altro oggetto misterioso. Lo mostrò all’uomo: questa volta era un cubo di plastica trasparente con riflessi gialli.
“Vedi? Questa è memoria di massa, non quella rotella assurda e cigolante che sta là dentro e ha bisogno di una ventola gigantesca per non surriscaldarsi”.
Con gran fretta si mise di nuovo al lavoro, sollevò l’involucro del computer, estrasse in pochi secondi gli oggetti corrispondenti a quelli che aveva estratto dal suo borsone e li sostituì rapidamente. Martino lo guardava con interesse, ma non riuscì a seguire le sue manovre.
Kabroska, senza rimettere l’involucro al suo posto, riaccese il computer. I due oggetti alieni si illuminarono, si illuminò anche il monitor e, dopo tre secondi, tutto si spense. Il tecnico, ammutolito, guardò l’uomo con aria perplessa, poi raccattò tutto, mise tutto sul bancone che, vide Martino, aveva le rotelle, e se ne andò spingendolo.
Finalmente era solo. Il trambusto del corridoio era terminato. Si sentiva stanco e lievemente infastidito dalla distruzione del suo computer. Ebbe voglia di sapere… sulla terra avrebbe detto… che ora fosse. Uscì nel corridoio e si diresse a sinistra, sicuro di vedere, attraverso il finestrone che c’era in fondo, girando a destra e guardando a sinistra, il gran sole al tramonto. Quando arrivò si accorse con delusione che il cielo era ancora coperto. Lontano, oltre la grande foresta verde-azzurra, una striscia turchese luminosa annunciava il prossimo tramonto.
Tornò alla sua camera. Era quasi ora di cena ma non aveva fame. Si distese sul letto senza spogliarsi e subito la stanchezza per le avventure della giornata lo fece addormentare. Si ritrovò nei prati intorno alla sua casa, com’erano negli anni del dopoguerra: distese ondulate di erba verde, orti pieni di cavoli verdi e pomodori rossi oblunghi, quelli che non si trovano più sui banchi dei verdurai, muriccioli diroccati, una grande vasca tonda di acqua verde, papaveri, cardi, fiori gialli, qua e là zone di cappellaccio su cui sostavano al sole le lucertole. Volle tornare a casa, gli venne da piangere, si mise a correre, ed ecco che vide Livia, ritta di spalle, appoggiata ad un albero. Era voltata verso un tramonto sconfinato, fiammeggiante, con le aborrite striature lasciate dagli aerei del suo pianeta. Lui le arrivò alle spalle e l’abbracciò. Lei si voltò e gli sorrise.
“Martuccio, Martuccio” disse Carsidia scuotendolo. Lui si svegliò e vide il suo volto liscio e inodoro che gli sorrideva. Alla base del collo, notò, la bella aliena aveva un leggero graffio roseo che spuntava dal colletto della tuta.
“E’ già mattina?” chiese Martino.
“No. E’ notte. Ma hai saltato la cena e… anche Kabroska”.
Alzò il busto sostenendosi con i gomiti e Carsidia lo baciò sulla guancia destra.
“Che ti ha fatto Achillipo?” chiese Martino fissando il piccolo graffio.
In quel momento vide Kabroska che, tutto allegro - se fosse stato umano avrebbe fischiettato - alzò una mensola che pendeva dal muro e di cui non s’era mai accorto, ci mise sopra il monitor, collegò tutti i cavi, accese il computer che aveva lasciato sul banco a rotelle. Poi, mentre si udiva la musichetta dell’accensione, usò il mouse, accanto al monitor, e, dopo un po’ si udì un’altra musica, mentre appariva la scritta ‘SoftCrim’ e poi ‘ComplexDesigner’. Il prode tecnico alieno aveva superato tutti gli ostacoli ed era riuscito in quello che Martino aveva tentato invano per giorni e giorni sulla terra: installare quel dannato programma costosissimo, che aveva già provato, con difficoltà, sul bancone del venditore e, prima, sul computer di un amico.
Martino ringraziò di cuore il formidabile tecnico Felpa e corse subito a provare il programma. In cinque minuti si accorse di non essere all’altezza: si ritrovò con un centinaio di finestre sullo schermo che non riusciva più a governare. Altri cinque minuti servirono per chiudere il programma con le sue cento finestre. Martino guardò con aria sconfortata Kabroska e gli chiese di disinstallare il programma. Kabroska, con spavalderia, prese il mouse e cliccò sul comando ‘disinstallazione CmplxD’. Si udì un lungo ronzio mentre compariva la scritta ‘Sto vedendo se si può fare’. Alla fine comparve: ‘Non si può fare. Non capisco cosa devo installare’.
“Installare?” esclamarono in coro i due  sbalorditi.
A quel punto intervenne Carsidia che era rimasta a guardare.
“Ora andate a dormire” disse “Continuerete domani. Tu, Martino, usa il tubo appeso a capo del letto. Il refettorio ormai è chiuso.”.
“E’ un software che non si può definire primitivo” osservò Kabroska “E’ solo assurdo, contraddittorio, indecente, e dimostra la natura sadomasochista dell’autore”.
“A chi lo dici!” disse Martino. Kabroska lo guardò con aria severa e schifata, come se lui, essendo un terrestre, fosse responsabile e colpevole. A Martino venne il dubbio di esserlo davvero: non si dovrebbe alimentare il commercio di certi oggetti dannosi. E subito gli tornò in mente l’orrendo spettacolo che sulla terra vedeva ogni giorno: miliardi di macchine rumorose, maleodoranti e quasi immobili giacenti ormai su tutte le strade e piazze del mondo.
Kabroska spense il computer, staccò il cavo che lo univa al monitor e se ne andò spingendo il suo carrello, seguito da Carsidia.
Martino si spogliò e si mise a letto sperando di riprendere al più presto il sogno interrotto. Ma in quel momento gli tornò in mente il graffio di Carsidia che, nella fantasia, si allungava sotto la tuta. Gli parve di vederlo serpeggiare e ramificare come un fulmine. Gli si rizzarono i capelli ed ebbe ancora paura di quel mondo assurdo. Allora, pensò, non è vero che su questo pianeta non esiste la violenza! Esiste, e come! Non sapeva esattamente se questa conclusione lo dovesse tranquillizzare o atterrire ancora di più. Gli parve evidente che il capo o padrone Achillipo non avesse gradito la rivelazione... o invenzione del suo  nome e che quindi avesse rincorso Carsidia per punirla. E quel graffio lo dimostrava.



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