Quando si svegliò si sentì perfettamente riposato, con
la mente leggera e ancora con una voglia pressante di esplorare il nuovo
mondo.
Quando un marinaio dell’equipaggio di Cristoforo Colombo o di Caboto
o di Magellano si svegliava su una nuova terra sconosciuta doveva sentire
un impulso analogo, ma con la certezza di avere intorno a sé molti
compagni pronti a gettarsi nell’avventura con lui. Aveva certamente un
reverenziale timore dell’ignoto, popolato di mostri fantastici, ma lo confortava
la convinzione di essere venuto a combattere contro quei mostri per vincere
e per conquistare la nuova terra, in nome di Dio, del re e della regina:
scuse e insieme stimoli possenti.
Martino, invece, era solo, con un solo amico ipotetico, prima annunciato
e poi negato.
A cinquant’anni era abituato ai comportamenti contraddittori. Sulla
terra gli uomini e le donne affermano e poi smentiscono, promettono e non
mantengono, offrono e poi rifiutano, appaiono e scompaiono continuamente.
“Che tipi di uomini e donne frequenti?” gli avrebbe detto qualcuno di sua
conoscenza. Ma lui gli avrebbe risposto: “Che tipi di uomini e donne ti
fanno credere di frequentare?”. Non è che siano, per natura o per
principio, tutti incoerenti, traditori e cialtroni. E’ che sulla terra,
specie ai nostri giorni, i rapporti interpersonali sono molteplici e mutevoli
e la vita è dinamica e vivace. Non poteva dunque meravigliarsi per
l’incoerenza di un’aliena tanto simile ad una donna.
Ma qui, a distanze siderali da ogni traccia dell’umanità, il
dubbio sull’esistenza di quest’amico poteva diventare ossessivo. E lo spirito
d’avventura, il desiderio di scoprire il nuovo era temperato dalla solitudine
e dal dubbio sulla autentica pacificità degli abitanti di Saudàr.
Il dubbio, in fondo, è lo stesso che prende, sulla terra, chi si
accinga ad attraversare una giungla, un deserto, o soltanto un paese straniero:
sarà accolto con ospitalità dagli abitanti, sarà risparmiato
dalle belve, o finirà, in un modo o nell’altro, assassinato?
Mentre era assorto in pensieri come questi, intorno a lui la luce,
che al risveglio era fioca, andava a poco a poco aumentando. Quando lo
notò, trovò confortante la somiglianza con un albeggiare
terrestre.
Nessuna lampada era accesa nella stanza. Volle individuare la fonte
di quella luce crescente. Si alzò e vide che veniva da una fessura
sotto l’uscio. Aprì la porta e la luce lo abbagliò. Tese
l’orecchio e non udì alcun rumore. Nessun essere vivente appariva
nel corridoio. Allora Martino si diresse verso sinistra, da dove sembrava
provenire la luce. Al fondo, il corridoio si piegava ad angolo retto sulla
destra. Martino vi proseguì e, dopo alcuni passi, trovò,
sulla sinistra, una finestra enorme con grandi lastre di materiale vitreo.
Vi si accostò e vide finalmente un panorama del nuovo mondo.
Il cielo era grigio-roseo. Il territorio visibile aveva zone di tinta
verde-bluastra e altre rosate. Il colore verde-bluastro era dovuto alle
chiome di molti grandi alberi che si perdevano nella foschia di un orizzonte
lontanissimo. Le macchie rosee non erano ben riconoscibili. Potevano essere
costruzioni lontane o aree coltivate e fiorite. Fioriture invernali: è
possibile.
Nelle vicinanze si vedeva parzialmente un cortile tutto coperto apparentemente
di ghiaia di un colore variegato rosa e arancio. La costruzione in cui
si trovava, a giudicare dalla distanza apparente del piano dal cortile,
poteva essere alta, fino al suo piano, una decina di metri. Non
riusciva a vedere nessuna parte esterna del suo palazzo perché la finestra era
chiusa e non c’era una maniglia per aprirla. Martino rimase a lungo a
contemplare il paesaggio. Quando tastò il vetro lo trovò
freddissimo. Si aspettava di vedere sorgere un sole da un momento all’altro,
ma presto si accorse che le ombre degli alberi erano quasi del tutto invisibili,
proiettate all’indietro. Ciò significava che il sole stava sorgendo
alle sue spalle. Decise di correre all’altro lato del palazzo: ci doveva
essere un’altra finestra. Vide che alla sua destra il corridoio proseguiva
per non più di dieci metri e poi piegava verso destra. Preferì
prendere questa strada piuttosto che tornare sui suoi passi rischiando
di ritrovarsi nel refettorio, dove ricordava di aver visto grandi finestre,
ma al di sopra delle teste di tutti i rostri e carsidie.
A metà del nuovo lato di corridoio, lungo circa sessanta metri
come quello opposto che portava al refettorio, c’era un’altra enorme finestra.
Da questa vide un palazzo distante non più di cento metri. La facciata
visibile aveva un colore giallino e quattro ordini di finestroni sovrapposti:
quattro piani. Dal confronto poté capire di essere al terzo piano.
Altri palazzi più lontani si intravedevano ai lati del primo con
alberi interposti, dal tronco grigio contorto e dalla chioma blu verdastra.
Le ombre sembravano proiettate sulla sinistra. I finestroni erano enormi
macchie scure quadrangolari sulla superficie giallina. Il terzo piano,
l’ultimo, aveva una sola lunga finestra. Il secondo ne aveva due, ma più
strette, il primo tre, ancora più strette. Il piano terreno sembrava
rientrare rispetto ai piani superiori e la sua facciata ristretta era quasi
interamente occupata da un’apertura grande quanto la finestra dell’ultimo
piano. Ai due lati estremi di questo piano due colonne ricurve, simili
a grosse zampe di leoni, reggevano gli spigoli dell’intero palazzo. Si
capiva che almeno altre due zampe simili dovevano essere sul retro dell’edificio.
Sul palazzo non si vedeva un tetto spiovente; doveva quindi esserci un
terrazzo.
Non un’anima si aggirava per il cortile, né un’ombra appariva
alle finestre del palazzo più vicino. Quelli più lontani
non offrivano sufficiente visibilità. Martino abbandonò presto
anche questa finestra per proseguire fino in fondo al corridoio dove girò
a destra e trovò, dopo pochi passi, la finestra che cercava.
Qui lo spettacolo fu, in parte, inaspettato: il sole c’era e occupava,
con il suo disco rosso amaranto, da poco sorto interamente, una parte enorme
sopra l’orizzonte. Intorno ad esso una luce accecante sfumava in lingue
rosse, violacee e arancio che dilagavano per tutto il cielo visibile. La
pianura sottostante era invasa incredibilmente dall’immagine di un altro
sole sfavillante: doveva esserci uno specchio d’acqua. Sì, c’era
un lago enorme che occupava gran parte del territorio visibile. Il resto
era disseminato di sagome nere di alberi contorti simili a quelli già
visti e di altre sagome che, ad un attento esame, si rivelarono costruzioni
di foggia non usuale sulla terra: torri composte da piani circolari disposti
eccentricamente l’uno sull’altro e culminanti con una guglia.
Mentre Martino stupefatto contemplava il paesaggio, un corpo in movimento
entrò improvvisamente nel suo campo visivo e lo fece trasalire.
Si voltò lasciandosi sfuggire un grido, subito soffocato. Era un
rostro. Non ne aveva udito i passi nel corridoio.
Il nuovo arrivato gli si era affiancato e, mormorando qualcosa di incomprensibile,
si era messo a contemplare l’alba a fianco a lui.
Martino ne poté osservare il profilo. Il naso non era poi così
adunco, sembrava ricoperto di pelle morbida e rugosa, somigliava più
alla corta proboscide di un tapiro che al becco di un rapace. Fu certo
che questo non fosse l’accompagnatore di Carsidia, che era meno basso e
curvo e, a quanto pareva, più collerico ed energico. Martino pensò
con imbarazzo alla possibilità che i rostri si salutassero in qualche
modo incontrandosi al mattino. Ormai erano passati alcuni minuti quando
decise di provare a dire: “Buongiorno”. La reazione fu immediata.
Il rostro si voltò e, abbozzando una smorfia che doveva essere un
sorriso, gli diede una pacca sulla schiena con una manona appesa a un braccio
scimmiesco. Poi, senza dire niente, se ne andò. Fece pochi passi
nel corridoio e scomparve dietro l’angolo.
Il sole intanto era salito un poco nel cielo. A Martino sembrò
che la velocità dell’astro nel salire fosse sensibilmente inferiore
a quella che si può osservare all’alba sulla terra.
Aveva appena sbirciato fuori delle finestre e già rilevanti
differenze rispetto alla terra si potevano notare: il sole enorme, una
rotazione del pianeta apparentemente più lenta, vaste pianure lussureggianti
di una vegetazione simile a quella della terra, ma visibilmente più
abbondante e vigorosa, rade costruzioni di strana architettura. Quali sorprese
ancora lo aspettavano fuori dell’ospedale?
A questo punto si sentì improvvisamente stanco e affamato, come
se solo in quel momento sentisse l’effetto della marcia veloce fatta per
il corridoio, dopo giorni di riposo coatto. E insieme sentì gli
altri impellenti bisogni che molti sentono ogni mattina: almeno mingere
e almeno lavare alcune parti del corpo.
Si era accorto che delle numerose porte disposte lungo il lato interno
del corridoio alcune erano più strette, e ricordò che quella
della latrina usata il giorno prima era una di queste. Raggiunse la più
vicina e la aprì. La stanza era vuota, con pochi mobili metallici
non somiglianti a quelli di una toilette. Richiuse subito, anche se la
curiosità lo avrebbe spinto a rimanere ad osservare, e si spinse
fino alla prossima porta ridotta. Questa dava accesso a una stanzetta simile
a quella visitata il giorno prima, con in più un gran cilindro trasparente
che doveva essere la cabina di una doccia. Dopo l’uso del water, entrò
nudo nel cilindro e se ne servì: l’acqua calda sprizzò da
tutte le direzioni e, ugualmente, getti d’aria calda lo asciugarono rapidamente
colpendolo in tutte le parti del corpo.
Dopo questo benefico trattamento, solo una vaga nostalgia per la famiglia
e la casa lontana turbavano il suo appagamento. Rivestitosi, si diresse
verso il refettorio, dove sperava di trovare una colazione non del tutto
ripugnante. Appena fu giunto, lo spettacolo che gli apparve sulla soglia
gli spense ogni speranza: i pochi individui presenti a quell’ora ricevevano
dalle macchine le solite scodelle di poltiglia gialla.
Senza interprete non sapeva neppure se avrebbe ottenuto la poltiglia.
Una bella fanciulla del tipo di Carsidia gli si avvicinò sorridendo
e gli disse qualcosa in lingua saudarica. Poi, come per toglierlo d’impaccio,
ordinò una poltiglia e glie la mise in mano. Martino restò
in piedi ad annusare il ben noto semolino, mentre la fanciulla tornava
sui suoi passi.
“Perché non provare?” disse tra sé. Poggiò la
scodella su una delle macchine, si avvicinò al microfono con cui
tutti usavano trasmettere i loro ordini e gridò: “Cappuccino e cornetto”.
Anche questa volta la macchina ronzò per mezzo minuto e alla
fine, incredibile, espulse una scodella con un liquido avana pallido.
“No!” fece Martino “E il cornetto?”.
La macchina ronzò ancora e dalla sua cloaca uscì una
seconda scodella con una specie di pizza bianca.
“Beh, ci si può stare” pensò Martino. Prese le due scodelle
e si sedette al primo tavolo vuoto.
Annusò il cappuccino e poi la pizza-cornetto. Assaggiò
il cappuccino. Aveva un sapore di acqua calda zuccherata. Non c’era traccia
né di caffè né di latte. Il cornetto aveva un sapore
di panini all’olio dolciastri. Tuttavia tutto era molto al di sopra dei
suoi timori.
Aveva appena sbocconcellato più di metà del suo cornetto
e sorseggiato tutto il cappuccino, quando arrivò Carsidia, con in
mano la solita scodella di poltiglia e, indosso, una tuta verde.
“Bravo” disse “hai fatto tutto da solo! Sei andato al gabinetto?”.
“Naturalmente. Ho fatto anche la doccia. Le vostre docce sono meravigliose”.
Prima di iniziare il suo pasto Carsidia estrasse da una tasca un telefonino
e lo porse a Martino dicendo:
“Tieni questo. Quando lo senti suonare spingi il pulsante bianco per
parlare con me. Quando vuoi chiamarmi premi il pulsante giallo”.
Martino lo prese e lo osservò un po’, ma, almeno per ora, doveva
tenerlo in mano perché il suo pigiama non aveva tasche. Forse avrebbe
avuto anche lui una tuta come quella della ragazza.
Carsidia trangugiò rapidamente la sua razione, poi chiese a
Martino che cosa avesse mangiato. Martino le offrì il pezzo di cornetto
che gli era rimasto. La ragazza lo divorò, mostrando esageratamente
di apprezzarlo.
Rimanendo seduti al tavolo, provarono la comunicazione tra i loro telefonini.
Poi si alzarono e tornarono nella stanza di Martino. Qui il letto era già
stato rifatto, e una tuta verde vi era distesa sopra. Martino stava per
indossarla tenendo il pigiama, ma la ragazza lo invitò a denudarsi,
prima. L’uomo obbedì senza alzare gli occhi ed ebbe la sensazione
che la fanciulla lo osservasse con un sorriso ironico.
La tuta aveva l’interno felpato ed era dotata di molte tasche, in una
delle quali l’uomo poté riporre finalmente il suo telefonino. Infine
ebbe da calzare un paio di scarponi simili agli ‘anfibi’ dei militari e
fu pronto per uscire. Quando fu sulla porta tornò indietro un momento
per accarezzare il monitor del suo computer, che non aveva più usato
dal giorno della sua cattura. Che fosse stato catturato era ancora convinto.
“Ah!” esclamò Carsidia “Ecco! Perché hai accarezzato
il tuo computer?”.
“Mah” fece Martino “E’ il mio vecchio computer. Ci sono affezionato”.
“E’ per questo che l’avevo scambiato per un tuo amico!”.
Martino ci rimase di stucco. Sembrava seria. O lo stava prendendo in
giro? Si mise a ridere, ma l’espressione di Carsidia lo raggelò.
Sembrava arrabbiata.
“Fanno amicizia anche con i computer?” pensò Martino.
Dunque l’amico catturato insieme a Martino non era altro che il suo
computer! Questo ingenuo errore era stranissimo, inaudito. Catturare un
uomo insieme al suo personal computer sarebbe stato spiegabile: sarebbe
stato come prendere un bambino con il suo giocattolo preferito, o un cagnolino
con la sua palla, per farlo giocare e distrarre. Ma confondere un computer
con un amico che senso ha? Eppure una confusione simile per quegli alieni
sembrava naturale.
“Va bene” fece Carsidia aprendo la porta “Andiamo”.
La ragazza, seguita dall’uomo, si diresse verso il refettorio, ma in
fondo al corridoio aprì una porta a sinistra che dava su una larga
rampa di scale che, verso il fondo, piegava a destra ad angolo retto. Al
fondo della scala Carsidia aprì un gran portone, e i due si ritrovarono
nel cortile. La luce era fortissima. L’enorme sole era ancora salito, appariva
più piccolo, ma sempre molto più grande del sole terrestre:
più o meno il triplo, rispetto alle dimensioni apparenti del piano
orizzontale. Aveva perso le sue tinte rossastre e dardeggiava in un’aria
inaspettatamente fresca e tersa.
La ghiaia era morbida: sembrava di gomma. Anche l’asfalto, che raggiunsero
in pochi passi, era cedevole sotto i piedi. Al cancello, girarono a destra,
percorsero un breve tratto di strada nel quale incontrarono due Carsidie
e tre o quattro Rostri. Poi voltarono a sinistra. Nessun mezzo di locomozione
si vedeva in giro. In pochi passi raggiunsero una delle torri a piani eccentrici
che Martino aveva visto dalla finestra.
Vista dal basso la costruzione apparve imponente e deserta.
“E’ un monumento?” chiese Martino.
“No. E’ un palazzo. Su ogni piano c’è un bel terrazzo dove si
può stare a prendere il sole. Vuoi entrarci?”.
“Sì. Mi piacerebbe... Ma è un palazzo pubblico?”.
Carsidia esitò un momento.
“Pubblico e privato” poi disse “sono concetti inesistenti su Saudàr.
Ciò che per voi è il privato corrisponde più o meno
alla riservatezza dell’individuo e al rispetto che gli è dovuto.
Sulla terra questa riservatezza è, per così dire, riservata
a chi possiede almeno una casa. Qui non è necessario possedere qualcosa
per essere rispettati”.
Martino quasi rabbrividì. Il discorso di Carsidia era un’altra
lezione di assurdità saudariana.
“Va bene” conciliò Martino “Ma questo palazzo è diverso
dagli altri...”.
“E’ fatto secondo concetti architettonici moderni. Ce ne sono molti
altri in città”.
“Ah. Qui non siamo in città?”.
“No. La città più vicina si chiama Corvasta ed è
a circa 100 chilometri da qui”.
“E come si fa a raggiungerla?”.
“A piedi, in 5 o 6 giorni ci si arriva”.
“Ma è pazzesco! I mezzi di trasporto non esistono qui?”.
“Sì, ci sono autobus e macchine anche a 2 posti. Se vuoi, ne
prendiamo una, ma preferirei prima andare qui in giro a piedi. In città
ci andiamo un altro giorno. Sei d’accordo?”.
“Ok. Ma perché non si vede neppure una macchina in giro?”.
“Sai, la gente qui preferisce andare a piedi”.
“E gli autobus?”.
“Ah, gli autobus si prendono solo quando è necessario”.
Martino, sbalordito, si guardò intorno. Tutto quello che vedeva
- alberi, case, foglie, qualcosa che somigliava a rocce, strada d’asfalto
gommoso - sembrava innaturalmente pulito. Annusò l’aria, aspirò
profondamente, e non avvertì il senso di nausea a cui sulla terra
si era dovuto abituare. L’atmosfera era quella di un paradiso terrestre.
“Andiamo?” fece Carsidia. E lo condusse nella torre eccentrica. Attraversarono
un piccolo cortile coperto di ghiaia morbida come quello dell’ospedale
da cui erano partiti, salirono una ventina di gradini e uscirono sul primo
terrazzo.
Era arredato con sedie a sdraio e piante ornamentali di strana foggia,
alcune con fiori, altre con frutta. I frutti erano grandi come mele e avevano
un bel colore roseo. Martino chiese se fossero mangerecci. Alla risposta
affermativa, Martino ne staccò uno dal ramo e lo morse. Aveva un
sapore paradisiaco, simile a quello del mango. Carsidia lo imitò,
ma subito depose il frutto morsicato nel vaso. Non sembrava gradirlo.
“Preferisce la poltiglia?” pensò Martino “Non è possibile!
Lei stessa è un bel frutto appena maturato. Non può essersi
formata così con quella poltiglia! Capisco i Rostri...”.
Sotto i suoi occhi, ancora masticando, Carsidia si denudò e
si distese su una sdraio per esporsi ai raggi di quel sole colossale. E
l’uomo, dopo una breve imbarazzata esitazione, non poté fare altro
che imitarla. Si guardò intorno. Non c’era nessuno. Qualche voce,
per così dire, umana si udiva provenire dall’interno del palazzo.
Una musica dolcissima, simile a melodie cinesi o indiane, incominciò
a diffondersi nell’aria. In un primo momento non era certo di udirla davvero.
Poi Carsidia gli chiese se gli piacesse.
“E’ deliziosa” rispose Martino “ma da dove viene?”.
Veniva dall’interno dell’edificio.
“E’ una radio” disse Carsidia “L’ho accesa io con il telecomando”.
L’uomo vide che la ragazza aveva in mano il telefonino.
“Si può anche cambiare canale?”.
“Certamente”. Premette un bottone e si udì qualcosa che somigliava
a un notiziario, in lingua saudarica.
“No, no” disse Martino “Torna pure alla musica. La vostra lingua per
me è... arabo”.
“Ma capisco io, per te. Sta dicendo che al centro spaziale hanno scoperto
un altro pianeta abitato da esseri viventi. E’ il 29esimo in tutto l’universo
conosciuto. La vita però è ancora a uno stadio primitivo.
Gli scienziati pensano di avvantaggiarsene per approfondire le conoscenze,
che poi ci trasmetteranno”.
“Ma di guerre, povertà, stragi, rapine non parlano mai?”.
“Oh, ascolta. Dicono che un Hernafrogus Dirus è scappato dallo
zoo e si è nascosto nella foresta di Groapesteria. Dicono che è
un animale molto pericoloso”.
“Che razza di animale?”.
“Non so. Non l’ho mai visto. E’ sicuramente una specie estinta in natura
e vive solo negli zoo”.
“Corriamo il rischio di incontrarlo?”.
“No. Siamo distanti. Siamo molto più a sud di quella foresta.
In poco tempo i guardiani lo cattureranno”.
“E nei boschi qui intorno ci sono animali?”.
“Certo. Poi ci andiamo. Sicuramente ne vedremo qualcuno. Prima però
andiamo ai piani superiori”.
Si alzò e si rivestì rapidamente. Indossare la tuta,
senza avere alcun tipo di biancheria, era semplicissimo. Lo fece subito
anche Martino e seguì la ragazza per le scale.
Salirono al piano superiore.
“Ma non ci sono ascensori qui?”.
“A nessun saudariano verrebbe in mente di usare un ascensore”.
“Ma questo è veramente un altro mondo!” fece Martino con un
pizzico di ironia. “Ammesso pure che nessuno qui abbia mai fretta, un vecchio
che abiti all’ultimo piano come fa?”.
“La vecchiaia è una malattia che noi abbiamo debellato. Naturalmente
può succedere che uno soffra temporaneamente di qualche forma di
astenia. In tal caso un energetico lo rimette in sesto. E poi abbiamo altri
mezzi...”.
La ragazza parlava con la sua solita sicurezza da prima della classe.
L’uomo aveva l’impressione di essere preso in giro.
“Senti, Carsidia, non è possibile che qui non ci siano problemi,
che tutto sia risolto per sempre, che non capitino incidenti o guasti.
Per favore, non prendermi in giro. Spiegami veramente come stanno le cose”.
Intanto, salendo, avevano raggiunto l’ultimo piano e stavano per uscire
sul terrazzo. Carsidia era leggermente affannata, ma l’uomo quasi rantolava
ed era tutto sudato.
“Ecco, vedi” disse slacciandosi la tuta. “Ora io sono tutto sudato
e affannato. Devo per forza spogliarmi, ma può darsi che mi raffreddo,
mi ammalo. E anche tu, non mi sembri invulnerabile. Se, per esempio, ora
che abbiamo usato le scale, tu cadevi e ti rompevi una gamba, che facevi?”.
Carsidia sorrise, molto sicura di sé.
“Non c’è nessun pericolo” disse “Hai visto che anche le scale
sono morbide. Se si cade non ci si fa male”.
Sono morbide? Non se n’era accorto!
Sul terrazzo una decina di rostri prendevano il sole sulle sdraio.
A Martino, a prima vista, sembrò che indossassero tutti una tuta
dai riflessi verdastri, poi si rese conto che quei riflessi provenivano
dai loro corpi nudi. Rimase incantato a rimirarli. Sei di essi avevano
evidenti attributi maschili penduli tra le gambe: notevoli attributi. Gli
altri quattro dovevano essere femmine: non avevano che una leggera peluria
scura sul pube e mammelle appena pronunciate. Ecco perché non aveva
mai notato femmine tra tutti i rostri che aveva visto nel refettorio e
nei corridoi: da vestite non si potevano distinguere. Sulla pelle del volto
quei riflessi verdastri erano appena percettibili.
Quando videro i due nuovi arrivati smisero di chiacchierare e sorrisero.
Tre di loro si alzarono per offrire le loro sdraio, ma Carsidia rifiutò
garbatamente e tenne un breve discorso di presentazione in saudariano.
Poi si liberò della tuta, subito imitata da Martino, e si diresse
verso il parapetto dove, all’ombra di quello che sembrava un bel pruno
con frutti violacei, poterono ammirare il paesaggio. Il sole ormai era
abbastanza alto. Sulla terra si sarebbe detto che fossero circa le 10 o
le 10 e 30 del mattino. Il lago aveva assunto tinte argentee e un continuo
scintillio. La brezza leggera arrivava anche sul terrazzo producendo un
allegro stormire di fronde e mitigando l’ardore del sole. Ai lati del lago,
cinque o sei fabbricati di fogge e colori diversi spiccavano tra gli alberi
di una foresta visibile fino all’orizzonte. Rimasero a lungo a guardare.
Anche la ragazza sembrava estasiata di fronte a quel magnifico spettacolo
naturale. A Martino sembrò di notare un frullo d’ali in un punto
della riva destra del lago. Lo indicò a Carsidia.
“Non so. Non l’ho visto.” disse la ragazza “Poteva essere un uccello
o un insetto”.
“Insetto? Ci sono insetti molto grandi?”.
“Oh, sì. Anche voi ne avete: coleotteri giganti. I nostri forse
sono più grandi: come un piccione...”.
“Davvero? Da noi insetti di quel tipo vivono solo in Africa. Io ne
ho visto uno imbalsamato in un museo. Ma vivi non ne ho mai visti... Sono
innocui?”.
“Beh, se ti colpiscono mentre volano ti possono far male...”.
“Senti. Non avevi detto che siamo in inverno?”.
“Sì. Ma oggi è una giornata molto calda per la stagione.
Però il freddo e il maltempo torneranno nel pomeriggio”.
“Sulla terra, d’inverno, i coleotteri e gli altri insetti dormono”:
“Hai ragione. Anche qui”.
“Allora quello che ho visto poteva essere solo un uccello”.
“E’ vero...Esistono anche altri animali volanti: le platicalie. Ma
anche queste dormono d’inverno”.
“Platicalie? E che tipo di animali sono?”
“Rettili volanti”.
“Incredibile!... E sono grandi?”.
“Più o meno quanto un tacchino o un condor”.
“E che forma hanno? Somigliano ai nostri pterodattili?”.
“Sì, abbastanza. Ma hanno un lungo becco a forma di spatola
pieno di denti che usano per nutrirsi di pesci e crostacei del lago”.
“Vivono solo intorno a questo lago?”.
“No. In tutte le zone temperate, in riva ai laghi e ai grandi fiumi”.
“Tutto questo è molto interessante. Mi piacerebbe vederne qualcuno”.
“Ne vedrai di sicuro”.
A Martino quest’affermazione suscitò un po’ di angoscia. Per
vederli doveva fermarsi in questo paradiso almeno fino all’estate. E quindi
il ritorno sulla terra, se mai poteva sperarci, doveva ritardare.
“Quando verrà la primavera?”.
“Tra circa due mesi”.
“Sessanta giorni?...”.
“Già. Parlo di due mesi terrestri. Qui non esistono mesi. Esistono
le 4 stagioni, perché anche l’asse di Saudàr è inclinato.
Non esistono neppure le ore. Il giorno è diviso in 4 parti: mattino,
pomeriggio, sera e notte fonda. Un giorno, cioè la rotazione di
Saudàr intorno al proprio asse, dura all’incirca 30 delle vostre
ore. Se vuoi puoi controllare sul tuo orologio”.
Martino fece l’atto automatico di guardare il suo polso sinistro, ma
subito si ricordò di non avere un orologio da polso”.
“Parlo dell’orologio del tuo telefonino.” riprese la ragazza “Oppure
puoi guardare, dopo, sul tuo computer. Un anno intero dura 320 giorni di
Saudàr. Ogni stagione è di 80 giorni”.
“E’ facilissimo da ricordare” disse Martino “ma come fate a vivere
senza tenere conto né delle ore né dei minuti che passano?
In giro non ho visto niente che somigli ai nostri orologi... Immagino che
non abbiate neppure le settimane”.
“No. Infatti. Voi avete i mesi perché avete la luna. Noi non
l’abbiamo. E la settimana vi serve per dosare il vostro tempo di lavoro
e di riposo. Da noi non esiste questa differenza”.
“Mi pare tutto pazzesco. Ci vogliono nervi d’acciaio per non curarsi
degli incidenti, del futuro, di tutto quello che c’è da fare...
Eppure qui tutto sembra essere ordinato e tranquillo. Per ottenere qualcosa
di simile, sulla terra sarebbe necessaria almeno una grande azienda bene
organizzata, con molti impiegati e operai: ci vogliono quelli che organizzano
e pianificano il lavoro, i turni, gli orari; quelli che puliscono le strade,
le stanze, le terrazze; quelli che guidano gli autobus e gli altri mezzi
di trasporto; quelli che trasportano le derrate alimentari, gli indumenti,
il materiale edile; quelli che cucinano, apparecchiano e sparecchiano;
quelli che rifanno i letti; quelli che coltivano la terra e allevano gli
animali; quelli che costruiscono le case; e poi i sarti, i medici, i fornai,
i lattai, i macellai, gli uffici postali, gli avvocati, i notai... Voglio
dire che noi abbiamo delle specializzazioni, per garantire un alto grado
di efficienza... Ma penso che ci siano anche qua: io non ho visto ancora
niente...”.
“Ovviamente abbiamo alcune specializzazioni anche noi, ma soprattutto
abbiamo una automazione molto sviluppata. Per esempio, se guardi bene le
stanze e i corridoi, le terrazze, le strade, le scale, noterai che ci sono
delle fessure...”.
“Fessure? Dove?”.
“Guarda” fece Carsidia accovacciandosi. E gli mostrò le fessure,
quasi invisibili, praticate alla base del parapetto e, a brevi intervalli
regolari, su tutto il pavimento del terrazzo.
“Attraverso queste fessure tutta la polvere viene aspirata cinque volte
al giorno. Di notte invece per le stesse fessure viene sparso sul pavimento
un velo di liquido detergente e disinfettante. Per i rifiuti più
voluminosi ci sono questi tubi. Premette un piccolo pulsante nascosto sotto
il bordo sporgente del parapetto e, poco più sotto, si aprì
una finestrella basculante da cui provenne un rumore di aspiratore elettrico.
Dopo qualche secondo lo sportello si richiuse automaticamente. Martino
poté notare su tutta la parete e sul parapetto una serie numerosa
di finestrelle come quella, ma di tre misure diverse. La più grande
poteva servire per buttare via un comodino. E per un armadio?...
“Ma qui sotto ci deve essere una rete di tubi e un aspiratore potentissimo!...”
“Ogni fabbricato ha un serbatoio sotterraneo con propri tubi e aspiratori.
I serbatoi dei fabbricati comunicano attraverso altri tubi con serbatoi
più grandi dove tutti i rifiuti vengono smistati automaticamente
e riciclati”.
“Ah, ecco. A dir la verità, anche noi, sulla terra, ricicliamo
qualcosa dei rifiuti…”.
“Lo so, lo so, ma noi ricicliamo tutto: circa il 70% serve a rigenerare
diversi materiali, il resto viene trasformato in carburante non inquinante”.
A Martino venne da ridere.
“Stai scherzando.” disse “Questo è inimmaginabile… Sulla terra
il carburante estratto dai rifiuti, anche se arrivasse, come qui, al
30%, non basterebbe a muovere tutti i motori necessari per un sistema poderoso
come questo. E il petrolio è quasi esaurito”.
“L’energia principale” disse Carsidia “ è quella del nostro
sole. Il pavimento su cui tu ti muovi, come quello delle strade, è
costituito da un materiale speciale che assorbe il calore del sole e lo
trasforma in energia elettrica. Ne abbiamo molto più del necessario,
tenendo conto che le nostre popolazioni civili sono mantenute stabili”.
“Come? Quanti siete?”.
“Quanti siamo? Un momento…”.
Carsidia premette qualche tasto sul suo telefonino, che, evidentemente,
non era solo un telefono e un telecomando, ma anche un computer o un terminale
di un computer centrale, e rispose:
“In questo momento i rostri sono circa 600 milioni, noi quasi un miliardo.
Ma tu vedi quanto spazio abbiamo, quante foreste. Molti luoghi del pianeta
sono stati solo sorvolati, mai esplorati a piedi… Mi piacerebbe andare
a vedere uno di questi luoghi. E a te?”.
“Ah, per me è tutto nuovo. Ma quando ero sulla terra i luoghi
inesplorati mi affascinavano. Quando ero giovane pensavo… pensavo tante
cose, ma anche che da grande avrei fatto l’esploratore. Ma non ne ho mai
avuto i mezzi. La vita mi ha portato a vivere in città, tra i computer,
le macchine…”.
Tacquero per un po’, contemplando il paesaggio. Il terrazzo fu investito
da un soffio di vento improvviso. Martino rabbrividì e corse a indossare
la sua tuta, subito imitato dalla sua compagna. I rostri, sdraiati sulle
loro sdraio, non si mossero. Continuavano a conversare e a sorridere.
“I rostri” disse Martino mentre si avviava con la sua guida verso le
scale “sono una razza strana. Sembrano tutti vecchi. Eppure non può
essere. E non ho visto nessun bambino”.
Carsidia sorrise.
“Non hai visto nessun bambino” disse “ nemmeno della nostra specie,
perché i bambini vengono tenuti negli asili”.
La notizia lo fece rabbrividire.
“Davvero?” disse “Ma solo di giorno o anche di notte?”.
“Anche di notte”.
“Perciò non esistono rapporti tra i figli e i genitori?”.
“Mah…” Carsidia esitò un momento. Poi riprese: “Esistono rapporti
come tra tutti i cittadini civili. In certe feste i genitori vengono invitati
ad andare a visitare i loro figli negli asili. Fanno un chiasso spaventoso,
tutti insieme. In quelle occasioni i genitori portano dei regali ai bambini
e poi possono appartarsi con loro nei giardini o nelle loro camerette e
stanno lì per molte ore a conversare, ad abbracciarli e a baciarli.
Molti di loro approfittano di quei momenti per raccontare la loro storia.
E i bambini stanno lì incantati ad ascoltarli, finché non
crollano dal sonno. Allora i genitori vanno via, ma possono chiamarli al
telefono quando vogliono… purché non li importunino”.
“Come è possibile?” protestò Martino “Come può
un genitore importunare un bambino?”.
Carsidia lo fissò dritto negli occhi.
“Ma da dove vieni?” disse “Io conosco bene le abitudini dei terrestri.
Da dove credi che vengano i disagi psicologici dei vostri bambini che poi,
da grandi, diventano paranoici, schizofrenici, ansiosi, ossessivi, sadici,
masochisti…”.
“Va bene, va bene, ho capito. Ma le balie, le maestre, gli assistenti,
i professori… Avete pensato che qualcuno di loro potrebbe importunare i
bambini?”.
“Beh” disse Carsidia “il personale degli asili è addestrato
accuratamente con un corso di laurea di… sì… credo di dieci anni”.
Martino aprì la bocca per rispondere, ma tacque. La notizia…
l’argomento era enorme e problematico. Erano arrivati in fondo alla scala
e si erano soffermati sulla ghiaia del cortile. In fondo, Martino sentiva
di approvare lo strabiliante metodo educativo esposto da Carsidia. Forse
qualunque terreste con un po’ di buonsenso lo avrebbe approvato. Certamente,
quel metodo non poteva essere perfetto, miracoloso. Doveva avere qualche
pecca. Tra l’altro, Carsidia, non dava l’impressione di esserne entusiasta:
aveva detto che i genitori, quando si incontravano con i bambini, facevano
un
gran chiasso e alcuni di loro si compiacevano di raccontare la loro storia
ai bambini, fino a farli crollare dal sonno…
“I bambini” riprese Martino “amano sentirsi raccontare qualcosa. Sulla
terra le mamme raccontano favole meravigliose…”.
“Lo so.” disse Carsidia “Qui nelle menti, nei ricordi della gente rimangono
le storie dei genitori che, quasi sempre, si connettono con la storia dei
nonni e di vari antenati. Gli educatori favoriscono questa usanza. Le storie
si trasmettono facilmente da un bambino all’altro e diventano un patrimonio
comune della società, insieme alla grande storia del pianeta e dell’universo”.
“Un momento.” disse Martino “Queste abitudini sono le stesse nelle
due popolazioni, nelle due razze?”.
“Non sono razze.” disse Carsidia sorridendo “Siamo due specie diverse,
ma molto bene integrate e felicemente conviventi”.
“Ah già. Due specie diverse. Ma da quanto tempo convivete?”.
“Da circa tremila anni. Prima noi non c’eravamo”.
“Come? Che vuol dire?”.
“E’ semplice. I primi Wariti furono costruiti dai Felpa, che sono quelli
che tu chiami Rostri”.
Ancora una volta Martino rimase stupefatto. Ripensò alla prima
impressione che aveva avuto della pelle così liscia di Carsidia,
e al fatto che il suo corpo non emanava alcun odore. Le si avvicinò
per annusarla di nuovo, ma, questa volta, gli sembrò di sentire
qualche tenue effluvio. Si era profumata?
A questo punto sbottò: “Come costruiti? Che vuol dire? Siete
dei robot?”.
“Non proprio.” rispose Carsidia “Anche in terra si cominciava a usarla:
siamo frutti di un’operazione di quella che voi chiamavate ingegneria genetica”.
“No! Possibile? Ma come modello le Felpe avevano sicuramente gli esseri
umani!”.
“Forse. All’inizio fu solo un esperimento. I primi Wariti non avevano
ancora le buone qualità dei discendenti che sono stati molto migliorati
nei secoli successivi".
“Ma questo è terribile, è mostruoso!”.
“Perché?”.
“Ma lo sperimentatore può sbagliare! I risultati possono essere
mostruosi! Come si fa ad assumersi queste responsabilità? I frutti
dell’errore e quelli che gli stanno intorno possono soffrire orribilmente
per colpa di chi ha sbagliato l’esperimento!”.
“Guarda, Martino, io conosco molto bene tutta la storia. Non ci furono
né errori irreparabili né grandi sofferenze. Quando i Felpa
iniziarono questi esperimenti, la medicina aveva già compiuto progressi
giganteschi nella cura e nella guarigione delle malattie e di ogni anomalia
biologica e genetica. Perciò gli errori si potevano correggere in
breve tempo e senza gravi conseguenze. C’è un principio scritto
dai nostri antenati comuni nella nostra Costituzione: le persone… ma anche
gli animali… non devono soffrire”.
“Ma dai!” disse Martino “Non devono soffrire! E se uno cade… non so,
su una roccia… e si fa male o si prende una malattia incurabile? Non posso
credere che questo pianeta sia una specie di paradiso terrestre e che qui
c’è sempre un rimedio per tutto”.
Carsidia rimase un po’ in silenzio, come assorta. Aveva una mano nella
tasca dove aveva il telefonino. Martino si accorse che stava muovendo le
dita. Poi Carsidia riprese: “Paradiso terrestre, sì, ho capito…
Forse ho citato male quell’articolo della nostra Costituzione. Non è
che su questo pianeta non esista la possibilità di soffrire…”.
“Ah, ecco…”.
“Ma noi e i nostri antenati non possiamo fare a meno di lottare con
tutte le nostre forze per alleviare il dolore, non con rimedi effimeri
che nascondano solo temporaneamente le sensazioni dolorose. Il dolore lo
vogliamo distruggere, allontanare per sempre: è per questo che lavoriamo.
Vogliamo che tutti siano felici… Tu hai sofferto nel nostro ospedale?”.
“No. O almeno non molto. No, non ho sentito alcun dolore. Ma ho provato
altri tipi di sofferenza: non ero affatto contento di non potermi muovere
e di stare lontano dai miei familiari”.
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