“Ampelorèma rapù daconergà faleru”.
“Argorù, argorù. Zanidakastra adelò fascaria Kabroska”.
“Martù, Martù”.
Quest’ultima parola, ripetuta da una flebile voce femminile, gli suonò
familiare. Ma il resto era incomprensibile. E l’altra voce, maschile, metallica,
non era affatto gradevole.
Sapeva di essere ancora in un sogno, anche se quasi al risveglio. In
quei momenti, al culmine delle storie sognate si manifesta spesso la coscienza
di sognare. Poi, a volte, si torna a sognare.
“Martù, Martù”.
Ripeté la voce incantevole come un suono di flauto. Erano almeno
trent’anni che non si sentiva chiamare così Martino Pollastri, detto
il Granchio.
Martino aprì gli occhi e si ritrovò in un letto, in una
stanza in penombra, con due persone ritte in piedi che lo guardavano, poco
visibili per via della luce fioca.
Una delle due, la donna che l’aveva chiamato “Martù”, si accostò
al letto, entrando in una zona più illuminata, e gli disse:
“Ben venido, Martuccio, nel nuestro paìs”.
“Grazie”, disse Martino, “ma perché non sono più nel
mio letto, a casa mia? Che è successo?”.
“Kabrò, Kabroska” tuonò la voce maschile e metallica
dell’omaccione dietro di lei.
A Martino non piacque. Ne fu quasi spaventato. Strizzò gli occhi
per vederlo meglio. Gli parve che al posto del naso avesse una specie di
rostro. Allora preferì guardare la donna: sembrava bellissima, sorridente
e amichevole.
“Casa tua stava crollando” diceva la ragazza “quando ti abbiamo preso
col tuo amico e ti abbiamo portato qui”.
Che succedeva? Come era potuto succedere che la sua casa crollasse?
E la ragazza sembrava che stesse cominciando quasi a parlare in italiano.
“Non ricordi come era difficile respirare? C’era puzza di fumo nella
tua stanza e tua moglie aveva acceso il ventilatore per mandarlo via. E
tu maledicevi il tuo vicino che t’appestava di fumo. Ma, in quel momento,
il vizio del tuo vicino era solo una goccia nell’oceano di gas tossici
che stavano inquinando la tua atmosfera. E anche questo era solo un aspetto
della catastrofe...”.
Martino non ricordava niente: né il crollo della sua casa né
l’amico che, secondo la ragazza, era con lui al momento della catastrofe.
Gli vennero in mente le scene dei tanti terremoti, incendi, alluvioni
e uragani trasmessi dalla televisione negli ultimi tempi.
Erano gli anni di fine millennio e queste scene ricordavano la fine
del mondo paventata dai profeti di molte religioni. Ma le vicende che seguivano
sui luoghi dei disastri rivelavano una continuità nella vita quotidiana
fatta di grande solidarietà dichiarata da fonti governative e di
infame non troppo reclamizzata ruberia e rapina.
“Kabroska paralomè kataparonà belù” disse l’uomo
dal rostro.
La fanciulla sorridente spiegò che il suo compagno voleva conoscere
la ragione dell’appellativo di “granchio”.
“Mi chiamavano così”, disse Martino, “perché da giovane,
a scuola, quando m’impuntavo su un argomento, non lo mollavo più
per giorni e giorni... Era perché volevo arrivare a capire bene...
Poi il vizio m’è passato, ma il soprannome mi è rimasto”.
L’uomo dal rostro rise metallicamente e Martino ne fu rassicurato.
Cercò di alzare la testa, ma si sentiva spossato. Si accorse
di avere un tubicino flessibile fissato al polso destro. Sicuramente gli
stavano iniettando del liquido in una vena. Guardò a destra verso
l’alto e vide il vaso vitreo da cui pendeva il tubo. Sullo sfondo, nella
penombra, gli parve di vedere un oggetto familiare. Guardò meglio:
sì, era il suo computer. Allora ricordò che le sue ultime
azioni, prima di ritrovarsi in quella strana e preoccupante situazione,
erano state quelle quotidiane di lavoro al computer nel suo sgabuzzino.
Ricordò che Marcella, un’amica di sua moglie Livia, gli aveva commissionato
una figura dai colori tenui da usare come sfondo di una carta intestata
per suo marito medico. Per risalire alle radici mitiche della Medicina,
Martino aveva disegnato il centauro Chirone, maestro, fra gli altri, di
Asclepio, ma sapeva che a Marcella non sarebbe piaciuto. Ricordò di
avere appena corretto la coscia anteriore destra del centauro, copiato
da una vecchia stampa, per rendere meglio la vigorosa tensione muscolare,
e di essere ormai pronto ad attenuare il colore seppia della figura, usando
uno degli strumenti grafici del suo computer... E poi? Dopo questo non
c’erano altri ricordi nella sua mente. Si preoccupò, pensando di
non aver salvato in memoria il disegno dopo gli ultimi ritocchi. Ma sapeva,
per esperienza, di essere in grado di rifarli con piccolo sforzo.
Guardando meglio, il computer gli sembrò acceso, e sullo schermo
vide l’immagine del centauro. Ne fu stupito.
“Perché avete portato qui il mio computer? E perché l’avete
acceso?”.
La fanciulla si volse all’uomo dal rostro con aria interrogativa.
Il rostro incominciò a sbraitare nella sua lingua incomprensibile.
E la ragazza gli rispondeva alzando la voce. Sembrava una lingua slava,
forse albanese, forse jugoslavo o russo. Uscirono dalla stanza lasciando
solo Martino, il quale avrebbe voluto fermarli, chiedere loro scusa per
aver dato forse l’impressione di volerli rimproverare. Sicuramente erano
andati a continuare la discussione con altri individui, forse con il loro
capo.
Martino cercò di approfittare della solitudine per alzarsi,
ma non ci riuscì. Cercò di capire dalle voci se i due si
stessero allontanando o fossero rimasti nei paraggi. Ma ormai non si udiva
più nulla: si erano allontanati.
Si guardò intorno. La ragazza aveva detto che l’avevano preso
assieme a un amico, ma chi poteva essere? Non ricordava di essere stato
in compagnia di qualcuno mentre lavorava al Chirone. Questi lavori di solito
li faceva in solitudine. Aveva bisogno di concentrarsi.
Ma chi erano questi salvatori? Come avevano fatto ad estrarli dalle
macerie? Cercò di ricordare gli istanti del crollo. Ma nessuna scena
simile a quelle dei disastri veduti in TV gli venne in mente. Se fosse
stato investito dal palazzo crollato avrebbe dovuto avere parecchie ferite
su tutto il corpo. Sollevò la copertina leggera con la mano sinistra,
che era libera, ma non vide fasciature né tumefazioni sul suo corpo.
Vide che aveva indosso un pigiama sconosciuto di colore bianco-roseo cangiante.
Scappare indossando quell’indumento significava attirare l’attenzione dei
passanti. E poi chissà in quale città, in quale parte del
mondo si trovava: non avrebbe saputo orientarsi, non avrebbe potuto interrogare
nessuno con quella lingua pazzesca...
Parte del mondo? Ma qui quanto gli stava accadendo sembrava fuori del
mondo! Sembrava proprio che gli fosse capitato quello che tante persone,
in America e in altri paesi, avevano dichiarato di avere sperimentato,
ma a cui era difficile credere: essere rapiti dagli alieni.
Martino guardò tutte le pareti della stanza, cercando una finestra
che non trovò. Sembrava una stanza d’ospedale, ma senza finestre.
Poteva anche essere una sala operatoria.
Forse stava ancora sognando.
Si addormentò. Molte volte si svegliò e si riaddormentò.
Quando si svegliava si rendeva conto che quell’incubo continuava. Non aveva
alcun dolore, non sentiva né fame, né sete, ma solo una spossatezza
tale da tenerlo inchiodato nel letto.
Quando finalmente ebbe un risveglio più efficace, sentì
che la stanchezza si era attenuata e poté mettersi seduto. Non sapeva
quanto tempo fosse passato: ore, giorni, o addirittura settimane...
In quel momento rientrarono la ragazza e il Rostro. Questa volta anche
il Rostro sorrideva con il suo volto animalesco.
“Buon giorno”, fece la ragazza, “Siamo contenti che stai meglio”.
Dunque la sua era una vera malattia. Guardò il suo polso, dove
era ancora legato il tubicino, e si accorse che nessun ago vi era infisso.
Ne domandò la ragione.
“Ago?...” disse la ragazza “Ah, gli aghi servivano per cucire”.
A queste parole, Martino capì subito di trovarsi di fronte ad
esseri di una civiltà superiore. Il sentimento da cui fu invaso,
mentre gli si rizzavano i capelli e i peli della barba, era misto di terrore
e di stupore quasi piacevole. Si sentì come un animaletto impotente,
completamente in loro balìa.
“Che volete da me?” chiese col tono più gentile che poté
trovare “Perché mi avete rapito?”
“Oh, no” si affrettò a rispondere la ragazza “Noi non ti abbiamo
rapito. Ti abbiamo portato qui perché eri in pericolo. Ed ora, come
vedi, sei quasi guarito”.
Martino non ci credeva, non si fidava. Ricordò che si erano
arrabbiati ed erano usciti, quasi sbattendo la porta...
“Quanto tempo è passato?” chiese mentre, sotto la coperta, si
sfilava il tubo dal polso.
“Oh, solo tre giorni. Io sono venuta ogni tanto a vederti”.
Era sempre sorridente.
“Riuscirò ad alzarmi e ad uscire da questa stanza?”
“Ma certo. Io ti accompagnerò a visitare la nostra città.
Credo che ti piacerà, Martuccio”.
Ecco, l’aveva di nuovo chiamato Martuccio, come solo sua madre aveva
fatto e non faceva più da più di trent’anni. Ma che ne sapeva
costei?
“E tu come ti chiami?” fece Martino, guardandola meglio.
Era ritta in piedi davanti a lui e indossava una leggera tunica bianca
con riflessi azzurri. I capelli biondi erano raccolti dietro il capo, alla
maniera delle antiche patrizie romane. Le parti scoperte - volto, braccia,
mani, piedi e caviglie - erano di un delizioso colore incarnato e di una
levigatezza indicibile. Calzava sandali bruni. Il pavimento sembrava marmoreo,
color porfido rosso.
“Ha ovviamente l’aspetto di un angelo, come tutti gli alieni benigni
descritti nelle storielle di fantascienza” disse a se stesso.
“Chiamami Carsidia.” disse la ragazza “E’ un nome che somiglia un po’
a quelli della tua terra e nella nostra lingua significa: voce del risveglio”.
“Ma perché dici: chiamami? Che vuoi dire? Non è il nome
che ti danno anche gli altri?”
La domanda di Martino fece attenuare il sorriso della ragazza.
“Ectòrodo, Ectòrodo” tuonò la voce metallica del
Rostro.
“Ecco, il Rostro ti ha detto il mio nome” disse Carsidia.
“Ma quello si chiama davvero Rostro?” chiese con stupore Martino.
“No, è il suo soprannome...” E dopo un attimo: “L’hai suggerito
tu”.
Martino si incollerì. Ma come? I nomi e i soprannomi qui si
inventavano là per là, a seconda delle occasioni, accettando
pure i suggerimenti degli estranei? Non ricordava però di averlo
mai fatto. E intanto il Rostro sghignazzava senza ritegno.
Martino si alzò in piedi e s’avvide di essere in grado di muovere
qualche passo. Gli alieni non avevano notato, o non avevano voluto mostrare
di aver notato, che lui si era tolto il tubo. Carsidia gli afferrò
un braccio per sostenerlo, con una forza innaturale per una fanciulla dall’aspetto
così fragile. L’uomo ne trasse una sensazione sgradevole. Era abituato
alla debolezza femminile. L’inaspettata forza di Carsidia per lui era una
novità difficile da mandare giù. Per la verità, anche
sulla terra, negli ultimi anni aveva dovuto ingoiare tipi di comportamento
inauditi che osservava nei suoi figli, man mano che crescevano, e nei loro
amici. Un rivolgimento notevole era avvenuto nella mentalità e nello
stile di vita dei suoi conterranei negli ultimi tempi, sicché anche
in terra si sentiva come in mezzo agli alieni. Ma forse, a pensarci bene,
si era sempre sentito circondato da gente estranea e, molto spesso, ostile.
Era nato, si poteva dire, con una visione della vita diversa da quella
degli altri.
Era nato in Italia, uno degli stati d’Europa, nel 1950. Da piccolo
giocava con pupazzi di peluche e cantava canzoni che sentiva alla radio.
Gli piaceva essere coccolato dalla madre e dagli altri adulti che vivevano
con lui: suo padre, sua nonna, due sorelle e un fratello, tutti maggiori
di lui. Ma la compagnia dei coetanei non lo interessava: li trovava aggressivi.
All’asilo piangeva tutto il giorno e non vedeva l’ora che lo venissero
a riprendere. Di asilo, fece al massimo tre giorni, non contigui. Poi fece
le scuole elementari, le medie e le superiori in un lungo periodo di transizione
in cui ipocrite voci strombazzanti avevano preso a propagandare il pericolo
di una crescente rarità delle nascite. Questo tipo di propaganda
ebbe un potere sconvolgente nei comportamenti della gente in quel tempo.
Arrivarono a dire che, se non ci fosse stato un numero sufficiente di giovani,
i vecchi non avrebbero potuto essere mantenuti. Un suo professore anticonformista
di Storia e Filosofia disse un giorno che una civiltà incapace di
mantenere e proteggere i suoi vecchi non era degna di perpetuarsi. E la
storia mostrò poi che buona parte dei giovani rimasti non avrebbero
neppure trovato un lavoro. L’idea di non trovare un lavoro, ma anche quella
di non potere essere mantenuto da vecchio, lo faceva inorridire. I ragazzi
e le ragazze che frequentava avevano, come i pochi compagni della sua infanzia,
atteggiamenti aggressivi e, spesso, arroganti. Accettavano di svolgere
attività di ogni genere con lui a condizione che lui non alzasse
la cresta. Se lo faceva, se prendeva qualche iniziativa, se un giorno voleva
stabilire lui le regole, veniva subito represso. Generalmente passava le
sue giornate in solitudine, sognando compagnie gradevoli e un mondo in
cui avesse avuto un minimo di potere. Il suo sogno fu abbastanza frustrato,
perché sulla terra, in un contesto politico ricco di splendide dichiarazioni
sui diritti dell’uomo, la legge della giungla e il diritto di prima beccata
fu sempre in vigore. Ciò che Martino fece dopo gli anni della scuola
non fu diverso dalle vicende vissute da migliaia di impiegati e operai
in tutto il mondo: ebbe una moglie simpatica ma possessiva e opprimente
e due figli, un maschio e una femmina, dapprima graziosi e gioiosi, poi
sempre più ostili e incomprensibili. Infine fu felicemente prepensionato.
E ora che gli stava succedendo? Sembrava una fase della vita imprevista
e straordinaria: una specie di metamorfosi spaventosa e affascinante. Ma
forse era solo ancora un sogno.
“Sarà possibile svegliarsi?” disse tra sé mentre passeggiava
lentamente per la stanza, sorretto dalla ragazza, e guardava attentamente
le pareti chiare, per capire di quale materiale fossero fatte e se non
ci fosse qualche apertura prima sfuggitagli.
Gli tornò in mente l’unica piccola parete spoglia del suo sgabuzzino,
anch’essa senza finestre. Su di essa aveva voluto dipingere uno squarcio
di campagna, copiandolo da una foto, che gli desse un po’ l’illusione di
poter guardare fuori da una finestra: era stato un tentativo solo in parte
riuscito di realizzare un ‘trompe l’oeil’. Qui invece il colore era tutto
unito: non una macchia.
“Purtroppo non stai sognando, mi dispiace” disse la ragazza. E poi
domandò: “Come ti senti?”.
Martino si voltò a guardarla in viso. Gli era molto vicina,
e sulla sua pelle non vedeva una piega. E non sentiva emanare da quel corpo
alcun odore di donna. Era davvero bella, un po’ più alta di lui.
Ma sapeva che non era una donna. Gli sembrava strano che lei s’interessasse
al suo stato di salute. Nei giorni trascorsi nel letto dormendo e svegliandosi
non aveva sentito né odori, né dolori, né fame, né
sete, e neppure alcuno stimolo a defecare o urinare. Tutto questo non era
naturale per un uomo, sia pure malato. Carsidia, l’aliena, doveva conoscere
esattamente le sue condizioni. Probabilmente essa stessa aveva provocato,
chissà in quale modo, forse per mezzo della fleboclisi, quello stato
di apatia, di assenza di ogni dolore e di ogni stimolo. Perché gli
chiedeva come si sentisse?
“Quando tu fai un viaggio” disse Carsidia “e ti trasferisci in un altro
paese con clima e altitudine diversa, le funzioni del tuo corpo vengono
alterate. Ti ricordi che spesso, da giovane, quando andavi in villeggiatura,
ti prendeva la stitichezza per diversi giorni?”
“Sì, è vero...”
“E qui non è diverso.” continuò “Qui sei come in villeggiatura.
A poco a poco le tue funzioni torneranno normali”.
Martino non poteva accettare l’analogia. Qui le cose erano radicalmente
diverse.
“Ma qui dove siamo?” chiese.
Il Rostro gridò qualche parola, forse ordini, e se ne andò.
Dalla porta, aperta per un attimo, entrò un fascio di luce intensa
e un odore, finalmente un odore, sia pure non identificabile.
Martino continuò a chiedere: “Siamo in un altro pianeta, non
è vero? Siamo lontani dalla terra?”
“Naturalmente.” Rispose Carsidia “Siamo sul pianeta Saudàr.
Questo è il nome nella nostra lingua. Il vostro scienziato che lo
avvistò per primo, nella costellazione di Orione, lo chiamò
Tau Beta Orionis. E’ qui che vivono, da qualche millennio, quelli come
me e quelli come il Rostro”.
“Ah, volevo dire! Siete di specie diversa! Due specie intelligenti
sullo stesso pianeta! E dire che in terra si continua a discutere... o
almeno di discuteva sulla possibilità che nell’universo esistessero
altre forme di vita al di fuori della terra...”. Poi, abbassando la voce:
“Dimmi, Cardisia, quelli come il Rostro sono vostri padroni?”.
“Carsidia.” corresse la ragazza, “La parola ‘padroni’ non esiste su
Saudàr, e neppure un’altra con quel significato. Noi siamo diversi
di forma, di abitudini, di tradizioni, ma viviamo e lavoriamo insieme”.
Un sorriso ironico si disegnò lentamente sul viso di Martino.
Forse avrebbe avuto una risposta come quella se avesse intervistato una
monachella o un volontario a Serajevo, in Israele, nel Kosovo, in Irlanda,
in Cecenia o in molti paesi dell’Africa. E si sa qual’è la fine
in terra di ogni tipo di coesistenza tra diverse etnìe. Qui Martino
aveva potuto classificare a prima vista il rapporto tra il Rostro e Carsidia,
come quello esistente tra un imperioso padrone e la sua segretaria... se
in questi termini si può definire qualcosa come il legame tra una
cagnolino e il suo padrone.
La ragazza sorrideva con aria innocente. Sembrava tranquilla e certa
di quanto asseriva, proprio come una monachella entusiasta della sua missione.
“Non è attendibile.” pensava Martino. “L’hanno mandata a sorvegliarmi
per tenermi tranquillo”.
Poi chiese: “Ma in terra ci tornerò più?”.
“Non so. E’ difficile. E’ tutto distrutto”.
“E i miei familiari?”.
“Non so... Si può vedere, tra qualche giorno...”.
“E come?”.
“Con i telescopi di Saudàr puntati sulla terra”.
“Telescopi? Ma siamo lontani anni luce”.
“I nostri sono telescopi aunocromonici a scansione immediata”.
“Au...cronomonici?”
“Aunocromonici. Sfruttano le onde luminose ad altissima velocità...
Dicono che sulla terra queste onde non siano ancora conosciute. Ma è
lo stesso fenomeno che ci consente di superare in circa un minuto la distanza
di un anno-luce”.
In quel momento Martino avvertì finalmente lo stimolo a defecare.
Ne fu preoccupato, ma, come un buon malato, informò subito del suo
bisogno quella che poteva essere la sua infermiera. Carsidia aprì
la porta e lo condusse nell’ambiente attiguo. Martino fu abbagliato dalla
luce molto più forte di quella che c’era nella sua camera, ma poté
riconoscere una sorta di ampio corridoio con pareti gialline e un paio
di alieni che vi passeggiavano vestiti con pigiami simili al suo, ma con
diverse sfumature di colori, e con ciabatte leggere simili a quelle che
anche lui ora aveva ai piedi. Non ricordava il momento in cui le aveva
calzate. Carsidia lo accompagnò verso destra per pochi metri, poi
aprì una porta e lo fece entrare in una piccola stanza, in cui l’uomo
poté riconoscere qualcosa di simile agli oggetti sanitari terrestri.
Fu gentilmente forzato a calarsi i calzoni e a sedersi sull’apertura ovale
praticata in un oggetto di forma cubica e gli furono indicati due bottoni
da pigiare dopo la defecazione: prima l’uno e poi l’altro. Beh, somigliava
all’attrezzatura che si trova nelle latrine degli aerei. Sulla parete di
destra, vicino al sedile, c’era una fila di almeno dieci bottoni, oltre
a quelli indicati da Carsidia, che intanto era uscita serrando la porta.
Martino osservò attentamente tutte le pareti, alla ricerca di qualcosa
che somigliasse a un contenitore di carta igienica, ma non lo trovò.
Intanto lo stimolo si faceva più impellente e il tappo fecale di
almeno tre giorni cominciò ad essere espulso con notevole sforzo
e dolore. Ebbe lunghi minuti di tormento, coronati infine dal sollievo
liberatorio che si ha in questi casi.
Sui bottoni erano disegnati simboli di colori diversi che Martino cercò
di interpretare. In fondo, questi esseri, se avevano costruito una simile
attrezzatura, non erano molto diversi dagli uomini. Sul primo bottone indicato
da Carsidia figurava in rosso una sorta di piccola doccia rivolta verso
l’alto. L’uomo intuì che il bottone avrebbe azionato uno schizzo
d’acqua, o di chissà quale liquido detergente, verso la regione
anale dell’utente. Non ritenne prudente servirsene senza aver provato a
vuoto. Si alzò e premette il bottone. Un circolo di zampilli convergenti
al centro scaturì dal contorno interno del sedile e bagnò
tutta la zona circostante per almeno mezzo minuto. Il liquido sembrava
acqua un po’ tinta d’azzurro, forse disinfettata, e tiepida al tatto. Avendo
constatato che la sua mano non si era ustionata, né aveva subito
altri danni immediati, al contatto con quel liquido, Martino si decise
a detergere le sue parti impure. L’abluzione fu molto confortevole.
L’altro bottone mostratogli portava impressa l’immaginetta di una doccia
questa volta rivolta verso il basso. Era di colore bianco su fondo azzurro.
Martino capì che questo bottone doveva servire per sciacquare il
water. Infatti, quando lo premette, un getto abbondante e violento invase
la cavità del cubo, formando un poderoso vortice che man mano scompariva
nel fondo.
Ma ora Martino, rimasto con i calzoni abbassati, avrebbe voluto trovare
qualcosa per asciugarsi.
“Premi il bottone verde” gli disse la voce di Carsidia da un altoparlante
invisibile. Martino si guardò intorno. Forse era osservato con una
telecamera.
L’unico bottone verde mostrava un soffio rivolto verso l’alto, ben
riconoscibile come soffio, per qualche tratto impercettibile diverso dal
getto liquido. Martino lo pigiò e saggiò la forza e il calore
del soffio con la mano, prima di affidare a questo nuovo dispositivo le
sue parti intime. Quando ci fu seduto sopra e provò un inaspettato
sollievo, dovette ammettere la netta superiorità di questo rispetto
agli asciugatoi ad aria terrestri. In pochi secondi fu perfettamente asciutto,
poté alzarsi, tirarsi su i calzoni e mettersi a osservare gli altri
bottoni. Le piccole immagini - un alberello, una specie di siringa, una
sedia a dondolo e altre - non erano ben comprensibili, sicché Martino
prese a premerli a caso. Uno di essi provocò un movimento oscillatorio
di tutto il sedile. Un altro produsse un forte sibilo e l’emissione di
un raggio di luce rossa che dal fondo della tazza raggiunse il soffitto:
un laser! Martino si spavetò e chiamò Carsidia, mentre quel
poco di fiducia che aveva acquistato lo abbandonava di colpo.
Carsidia entrò sorridendo e gli disse: “Sai a che serve il laser?”.
E senza aspettare la risposta continuò: “Serve proprio in casi come
il tuo: a frantumare le feci indurite”.
“Ma non è possibile!”, protestò Martino, “Ci si può
perforare le budella”.
“Beh, non succede mai una cosa simile. Noi usiamo il laser, quando
è necessario, da secoli”.
“Io preferirei non provarlo” concluse Martino. E uscì d’impeto
nel corridoio. Qui gli tornò in mente l’amico che, secondo Carsidia,
sarebbe stato salvato insieme a lui. Chiese di vederlo. Carsidia si mostrò
imbarazzata. “Ho sbagliato” disse “Nessun amico era con te”.
“Come è possibile? Come hai potuto sbagliare?” chiese Martino
allarmato.
Una frase nella incomprensibile lingua... rostrese tuonò dal
fondo del corridoio. Era lui, il Rostro. Carsidia afferrò la mano
destra di Martino e lo tirò verso la fonte del vocione tonante.
Ancora una volta Martino fu sorpreso dalla forza della fanciulla. Volle
provare a resisterle, ma si rese conto subito di essere notevolmente più
debole di lei. Forse le conseguenze della sua malattia non erano finite.
Mentre lo trascinava, Carsidia si voltò verso lui e disse: “Vieni,
andiamo a pranzo”.
Già. Dopo la defecazione in una perfetta latrina aliena, il
pasto alieno non poteva mancare.
“Vieni, vieni. Vedrai com’è bello”.
Anche l’idea del pasto entusiasmava la ragazza. Martino interrogò
il suo stomaco. Forse avrebbe mangiato volentieri qualcosa... ma qualcosa
di terrestre, di italiano: spaghetti al pesto, al pomodoro, alle vongole,
riso e fagioli, pollo alla diavola, orata al forno, insalata mista, melone,
vino rosso, zuppa inglese. Gli erano venute in mente le migliori vivande
della terra. Ma qui che cosa gli avrebbero offerto? Topolini vivi, vermi,
formiche e ortica cruda?
Mentre passava per il lungo corridoio, tirato come un cagnolino al
guinzaglio, si guardava intorno. C’erano porte chiuse e aperte. Qualcuno
stava sull’uscio a guardare. Quelli che si mostravano erano tutti rostri:
molto brutti, repellenti, ma dallo sguardo pacifico. Gli sembrò
perfino che qualcuno accennasse a un saluto. Uno aveva intorno al collo
qualcosa come una sciarpa di pelliccia. Ma gli sembrò che si muovesse
come un piccolo animale: una donnola o un ermellino vivo! Non ebbe il tempo
di accertarsene.
Girarono l’angolo in gran fretta e si trovarono in un enorme refettorio
brulicante di rostri e qualche femmina di creature meravigliose simili
a Carsidia. Guardando meglio riconobbe due o tre maschi di Carsidia, molto
simili alle femmine, ma con tratti leggermente più virili.
Alcuni della folla si fermarono a guardare lo straniero, alieno per
loro, accompagnato dalla bellissima infermiera-angelo. Ma la stragrande
maggioranza di quella moltitudine vociante - due o trecento persone (persone?)
in un salone enorme - badavano solo al loro pasto. Martino trovò
quasi osceno il loro modo di mangiare. Ognuno dei rostri chinava il capo,
immergeva il lungo naso in una scodellina e allungava le labbra per sorbirne
il contenuto; poi risollevava il capo, visibilmente soddisfatto, e riprendeva
a vociare. Il cibo era una poltiglia gialla simile a polenta, o a budino,
o a... vomito. Il naso, quando si sollevava dalla poltiglia, ne rimaneva
imbrattato. Qualcuno se lo puliva con un fazzoletto che poi gettava in
una cestino.
Da uno dei quattro lati della gran sala, dove Carsidia condusse Martino,
c’era un fila di almeno dieci macchine metalliche simili a grandi lavatrici:
distributori di cibo in poltiglia.
“Digli la tua ordinazione” disse Carsidia indicando una delle macchine.
“Come?” fece Martino stupefatto. E si guardò intorno per vedere
gli altri che cosa facevano. In effetti ogni rostro alzava la voce davanti
alla sua lavatrice. Qualcuno persino la prendeva a pugni. Tutto il cosmo
è paese, pensò, ricordando il comportamento umano davanti
a una macchina del caffè. E, tanto per provare, con scetticismo
e ironia esclamò: “Spaghetti al pesto!”.
La macchina prese a ronzare come un calabrone. Alla fine sul bordo
superiore comparve una scritta luminosa in caratteri saudarici che, secondo
Carsidia, diceva: “Spiacente, cibo esaurito”.
La ragazza voleva spostarsi ad un’altra macchina, ma il terrestre,
già rassegnato da prima, le chiese di ordinare due immonde poltiglie.
La fanciulla, ignara, credendo che l’uomo avesse rinunciato volentieri
ai suoi spaghetti, convinto dalla vista di quei manicaretti gialli, volle
accontentarlo. Ritirò le due porzioni e si avviò ad un tavolo.
Il piatto di Martino era più grande e conteneva una quantità
doppia di poltiglia.
“Perché?” fece Martino indicando le due scodelle quando furono
appoggiate sul tavolo.
“Ah!” disse Carsidia, “La macchina rileva il fabbisogno alimentare
di ogni soggetto. Si vede che tu hai bisogno di nutrirti molto più
di noi”.
Il sapore era degno dell’aspetto. L’uomo dovette sforzarsi per mandarne
giù qualche sorso, portando la scodella alle labbra. Poi la sua
buona volontà si esaurì. Abbandonò il piatto e si
mise ad osservare Carsidia. Vide che lei non usava il naso come i rostri:
mangiava come farebbe una donna sfornita di posate. Quando la ragazza si
accorse che l’uomo la stava osservando, appoggiò il suo piatto e
sorrise. Qualche goccia di quel collante giallo si era fissata ai suoi
denti. Poi la donna vide il piatto dell’uomo ancora pieno e disse: “Non
hai mangiato quasi nulla. Perché?”.
“Mi dispiace” disse Martino con tutta la gentilezza che riuscì
a trovare in quel momento, “I gusti umani in fatto di cibo sono molto diversi
dai vostri”.
“Ma devi nutrirti, in un modo o nell’altro. Se non lo fai così,
stasera dovrai di nuovo applicarti il laccio della flebo”.
Non era poi così fastidioso il laccio della flebo, senza neppure
l’ago che qui usano, o usavano, solo per cucire. Tuttavia Martino, accattivato
dalla ragazza che si atteggiava a sollecita infermiera o a mamma amorevole,
si fece forza, portò di nuovo il piatto alla bocca e trangugiò
altri sorsi di poltiglia. Quando fu arrivato a metà, temendo di
essere assalito da conati di vomito, lasciò il piatto sul tavolo
e si alzò, deciso a non continuare. Anche la ragazza si alzò
per seguirlo, e si avviarono insieme verso l’uscita del refettorio.
Il cibo quasi immangiabile lo preoccupava.
Come era fatto questo mondo? Dove si prendevano gli ingredienti per
preparare la poltiglia? Il componente principale sembrava granoturco, ma
più fine, più viscido. Da qualche parte dovevano esserci
campi di granoturco o di qualcosa di simile. Ma esistevano piante e animali
su questo pianeta? L’aria c’era: lui la respirava. Ma c’era una stella
simile al sole? Doveva esserci... Bisognava uscire assolutamente.
Si accorse di avere accelerato e che questa volta Carsidia lo seguiva.
Si voltò senza fermarsi e disse: “Voglio uscire, voglio uscire.
Voglio vedere com’è fatto questo mondo. Io qui sono praticamente
morto. Voglio rinascere”.
Carsidia lo guardava, visibilmente preoccupata.
“Dimmi dov’è l’uscita” continuò Martino sempre camminando
in direzione della sua stanza, perché aveva avuto l’impressione
che da quella parte del corridoio ci fosse più luce, luce naturale,
e quindi, forse, l’uscita.
“Aspetta” disse Carsidia affrettandosi per raggiungerlo, “Devi riposarti
un poco. E poi devi indossare un vestito adatto alla temperatura esterna.
Adesso siamo in inverno”.
“Ah! Che temperatura?”
“Fa freddo. Forse dieci gradi centigradi”.
“Va bene. Procurami un vestito adatto”.
La ragazza si fermò, subito imitata dall’uomo, estrasse un telefonino
da una tasca - una tasca in quella veste angelica! - e parlò in
lingua saudarica. Il Rostro le rispose sbraitando.
“Dice che è troppo presto per uscire. Dovresti riposarti almeno
altri due giorni. E naturalmente dovresti nutrirti meglio”.
“L’avevo capito. Il Rostro è il tuo capo”.
“Non è il mio capo!” rispose un po’ offesa, “Io sono d’accordo
con lui”.
“Io mi sento bene” disse Martino, “Ho solo bisogno di uscire, di vedere
che c’è fuori di qui e magari di cercare un po’ di cibo decente
o almeno lontanamente somigliante a quello che sulla terra sono abituato
a mangiare... E poi voglio sapere la verità. Voglio sapere cosa
è successo al mio mondo, ai miei familiari...”.
Fu assalito dall’emozione, gli venne quasi da piangere e strinse i
denti.
La ragazza dovette accorgersene, perché subito si prodigò
in una carezza materna.
“Va bene” disse, “Adesso andiamo a riposarci. Domani mattina, dopo
colazione ti porto fuori”.
Che voleva dire “andiamo a riposarci”? Martino la osservò da
vicino e cominciò a considerarla come un perfetto esemplare di individuo
dell’altro sesso. Ma quella pelle innaturalmente liscia lo imbarazzava.
Inoltre la situazione in cui si trovava non era proprio quella adatta per
le avventure amorose. Aveva cinquant’anni e, fino a qualche giorno prima,
aveva una moglie e due figli da accudire. La sua mente era ovviamente tutta
occupata dai ricordi e dalle preoccupazioni per la famiglia, anche se la
nuova situazione lo costringeva a temere per la propria sorte individuale
e a dibattersi in mezzo a una caterva di dubbi. Che tipo di vita futura
gli rimaneva? Quale probabilità aveva di tornare a casa? E intanto
che cosa avrebbe mangiato e bevuto? Come avrebbe fatto a sopravvivere con
quella poltiglia? E l’amico, l’amico a cui Carsidia aveva accennato - e
poi si era evidentemente pentita di averne parlato - c’era o non c’era?
E perché, quando aveva chiesto la ragione per cui il suo computer
era stato portato nella sua stanza ed era stato acceso, il Rostro si era
arrabbiato? A proposito, il computer era forse rimasto ancora acceso?
Pensando a questo, Martino si decise a percorrere gli ultimi metri
che lo separavano dalla sua stanza, questa volta subito preceduto dalla
ragazza.
Quando entrò vide che il suo computer era spento. Meno male.
Era abituato a cercare sempre di evitare gli sprechi. Ma sul pianeta Saudàr
quanto costava l’energia elettrica?
Lo chiese a Carsidia, ma la ragazza lo guardò con aria stupita.
Sembrò che non capisse. Poi corrugò leggermente la fronte
in uno sforzo di comprensione e disse: “Pagare... pagare... è questo
il verbo che ho spesso sentito usare sulla terra... adesso ricordo... Qui
non si usa. E non esiste un vocabolo equivalente”.
“Come? Perché?” si stupì a sua volta Martino.
“Perché qui non esiste il commercio. Ho saputo che in terra
la civiltà è fondata sul commercio. So pure che la civiltà
commerciale rappresenta un enorme progresso rispetto a quella precedente
che si basava sulle guerre e sulla rapina. Ma qui è diverso. Tu,
Granchio, dovresti averlo capito...”
“Perché mi chiami Granchio?... Non sono molto contento di questo
soprannome”.
“Perché, come Granchio, hai la tenacia adatta a comprendere
fino in fondo la vera sostanza delle cose...”
“Non so niente di questo pianeta, lo sai. Quello che dici, l’inesistenza
del commercio, scusa, ma mi sembra incredibile... Potrebbe essere un tuo
punto di vista personale... E comunque, anche se fosse vero, un valore
alle cose bisogna pur darlo. Non credo che voi abbiate infinita disponibilità
di ogni bene. A meno che questo... non sia un paradiso... E’ vero. Tu hai
l’aspetto di un angelo... Insomma, la tua testimonianza non è sufficiente.
Per conoscere bene le vostre usanze dovrei vivere qui almeno un paio di
mesi, vedere tutto e parlare con la gente”.
L’espressione di Carsidia, a quelle parole, si sarebbe detta imbronciata.
“Non ti offendere” riprese Martino “Qui per me è tutto nuovo.
E’ proprio un’altra vita. Devo abituarmi. Ma forse non sarà necessario,
se voi mi riporterete sulla terra”.
“Ti ho già detto che non so se sarà possibile. In ogni
caso ti farà bene passare qualche giorno con noi, con me”.
“Perché proprio con te? Sei stata incaricata di custodirmi?”
Ancora una volta Carsidia sembrò offesa. Però non perdeva
mai la calma né la dolcezza.
“Se vuoi... quando le avrai conosciute... potrai scegliere un’altra
accompagnatrice... oppure un accompagnatore...”.
“No, cara, non è questo il mio problema. Tu sei dolcissima e
gentilissima. Ti ringrazio per questo... Se mi fossi trovato di fronte
solo il Rostro... Ma io vorrei sapere solo chi sei, qual è il tuo
incarico e come siete organizzati qui... E vorrei anche sapere che cosa
sono io per voi: un animale?”.
“Sai” fece Carsidia spingendolo verso il letto, “io ho studiato per
molti anni la vita sulla terra. Ho osservato gli esseri che brulicano su
quel pianeta, ho sentito le loro voci, ho capito quali specie fossero intelligenti,
quali parlassero e, alla fine ho imparato la vostra lingua...”.
Martino non poté trattenersi dal ridere.
“Scusa, scusa” disse vedendo che la ragazza ci rimaneva male “Rido
perché esiste una sola specie parlante: l’uomo. E le lingue che
si parlano sono moltissime... Però ho capito che tu devi conoscerne
più d’una...”.
“Certo. Le conosco tutte... All’inizio non ricordavo bene la tua nazionalità...
Ma non esiste una sola specie parlante...”.
Martino la guardò stupefatto e incredulo. Gli sembrava una cosa
impossibile conoscere tutte le lingue della terra, anche per una saudariana
di intelligenza superiore. E quali altre specie parlanti aveva visto sulla
terra? Forse i delfini, ma i loro fischi non possono definirsi parlare.
Intanto, spinto da Carsidia, si era seduto sul letto. Si rialzò
e fece un giro lungo le pareti, meditando.
“Voi siete una specie molto più evoluta di noi” disse l’uomo
“E’ evidente. Dovete avere un cervello infallibile. Per un uomo, anche
molto intelligente - per me, poi, che sono negato per le lingue - è
impossibile conoscere tante lingue. Certe volte si conoscono ma non si
sanno parlare...”.
“Non è una questione di cervello” disse Carsidia “Noi ormai
abbiamo strumenti di precisione che ci permettono prima di memorizzare
e poi di tradurre ad una velocità sufficiente ad affrontare qualunque
conversazione”.
Martino la squadrò da capo a piedi. Aveva un computer? E dove?
Già, poteva essere piccolissimo, come un orecchino o un anello,
ma lei non aveva gioielli. Già, probabilmente era nascosto sotto
il vestito. Ma come poteva utilizzarlo? Aveva un auricolare? No. Ah, forse
lenti a contatto!
Le guardò gli occhi con attenzione. Quel colore incredibile
verde-azzurro brillante e diafano era naturale? E se aveva lenti a contatto
con un computer incorporato, come poteva servirsene? Nel momento in cui
usava gli occhi per leggere i messaggi del computer doveva perdere la visione
del mondo circostante. Ma quegli occhi cerulei non sembravano mai estraniarsi
e, in quel momento, stavano fissando proprio lui, con attenta gioiosa benevolenza.
Si sedette ancora sul letto. Si sentiva di nuovo stanco. Si distese
sotto le coperte e si addormentò. |