La ritirata del 4 Giugno 1944. Gli americani entrano a Roma. |
Così io vissi quella giornata, così viva nella mia mente. Per alcuni giorni non accadde nulla di particolare ma quella mattina andavamo spediti sulla via delle sette chiese e in poco tempo arrivammo alla borgata delle case rapide, così chiamate perché erano state costruite con certi pannelli di paglia prefabbricati e precompressi che, con un sistema ad incastro, permettevano la costruzione rapidissima di palazzine di due piani,un piano rialzato e un primo piano, per un totale di otto appartamenti, poco più che tuguri, che dovevano sopperire alla carenza di alloggi ed essere provvisori... all'italiana. Infatti rimasero in esercizio per molti anni. Solo negli anni sessanta furono abbattute. Si disse che in quei pannelli si annidasse ogni specie d’insetto. Alle case rapide incontrammo un ragazzo che chiese a mio padre se poteva venire con noi. Disse di sì, ma mentre proseguivamo per la via Ardeatina, il ragazzo disse che era meglio se andavamo verso il dazio e tagliavamo per i campi. Accettammo il consiglio. Superato il dazio riprendemmo la via Ardeatina la sola strada che ci permetteva di avere accesso alle case coloniche, dove era possibile raccogliere quello che era stato abbandonato. Quella mattina c'era uno strano movimento di truppe tedesche. Molti soldati tedeschi ci consigliavano di tornare indietro. Erano soldati che cercavano di mettersi in salvo, dal momento che gli americani avevano sfondato le linee tedesche ad Anzio e su tutto il litorale laziale. Erano quasi tutti giovani, sporchi e barbuti. Si vedeva che non dormivano da molti giorni. Anche per loro la vita era molto dura. Purtroppo le poche provviste che avevamo in casa non erano sufficienti nemmeno per un giorno, perciò eravamo costretti ad andare avanti con la speranza di trovare qualcosa di commestibile che sicuramente avrebbe dato un poco di respiro sia a noi che alle mie sorelle. Ma c’era un motivo ancora più pressante per andare avanti: metterci al riparo dai pericoli che si manifestavano sempre più seri. Se le truppe tedesche avessero creato un nuovo fronte per bloccare le truppe alleate lungo il fiume Tevere, attestandosi sul lato nord della sponda Trastevere, zona Prati fino a ponte Mollo (ponte Milvio) e oltre, Roma sarebbe stata al centro della battaglia, bersagliata da una parte e dall’altra. Riprendemmo la via Ardeatina. Superato il dazio di alcuni chilometri, ci lasciammo alle spalle il grosso dell’esercito tedesco in ritirata. In un punto in cui la strada formava un'ansa che dava l’idea di un golfo, lo vedemmo. Stava appostato in una buca con un cannoncino anticarro. Era un ragazzo biondo, con degli occhi azzurri, che aveva non più di sedici anni. Passando gli dissi “Non stai scomodo?”. Disse di sì. “Ma è mio dovere. Sono un soldato”. Provai una pena profonda. Ero solo un bambino, ma capii che non sarebbe sopravvissuto. O forse me lo fece capire mio padre. Ci salutammo con un cenno della mano e dissi: “In bocca al lupo”. Rispose: “Che il lupo crepi”. Ci avviammo per un sentiero che conduceva ad uno dei tanti casali. Giunti nel cortile del casale vedemmo alcuni soldati del presidio tedesco che stavano caricando su certi mezzi pesanti quanto potevano e su altri agganciavano dei cannoni ed altri materiali. Erano armati e avevano il classico atteggiamento di chi si prepara a combattere. Non dettero molto peso alla nostra presenza ma avevano molta fretta di allontanarsi al più presto possibile. Non c’era più dubbio: la ritirata verso Roma era iniziata. I soldati si erano appena allontanati che udimmo dei colpi di cannone ed un aereo che sorvolava sopra di noi. Mio padre era preoccupato ma ciò nonostante andava frugando all'interno della casa con molta attenzione cercando in ogni angolo e rovistando negli armadi per vedere se c’era qualcosa di commestibile da portare via. Trovò dei sacchi di farina, prendemmo quello che era possibile portare e tutti e tre ci avviammo per la strada di ritorno. Avevamo paura ma eravamo contenti della farina. Camminavamo a fianco dei tedeschi in ritirata, ma il peso dei sacchi non ci permetteva di camminare spediti come avremmo voluto. La fatica ci costringeva a rallentare. La bramosia di portare a casa una provvista di farina aveva ingannato le nostre forze e la nostra resistenza fisica. Fummo raggiunti da altri soldati. Sembravano un fiume in piena. Alcuni erano soldati della croce rossa. Il medico che li comandava disse qualcosa a mio padre che gli rispose in tedesco, e iniziarono una conversazione. Sembrava che il tedesco avesse subito simpatizzato per mio padre. Aveva bisogno di sapere com’era la situazione a Roma. Poi chiese a mio padre, ed io compresi la frase, quanto potesse durare questa guerra, e aggiunse: “Anche noi tedeschi siamo stanchi. Vogliamo tornare ad una vita normale”. Mio padre si fermò un attimo guardando l'ufficiale medico, il quale, visto che mio padre esitava disse: “Risponda pure, stia tranquillo, anch'io ho una famiglia e dei bambini che mi aspettano”. Mio padre disse che, secondo lui la guerra non sarebbe durata più di sei mesi. Il medico sembrò contento della risposta. Continuarono la conversazione. Ogni tanto ridevano come se la guerra fosse già finita. I militari della croce rossa avevano una barella con le ruote trascinata dagli infermieri. Il medico ci permise di mettere i sacchi sopra a quella barella, così potemmo camminare molto più spediti. Il medico ci informò che le forze alleate avevano occupato Anzio e Cassino, e disse che, a suo parere, i tedeschi che entravano a Roma si sarebbero arresi, mentre quelli che proseguivano oltre la città avrebbero continuato a combattere. Aggiunse che la città di Roma sarebbe stata risparmiata dalla rappresaglia, che i ponti sul fiume Tevere non sarebbero stati minati né distrutti dai guastatori dei corpi speciali, per un accordo preso dal generale di stato maggiore, il quale aveva rifiutato di eseguire gli ordini di Adolfo Hitler e riteneva inutile continuare lo scempio che la Germania nazista aveva fatto dell'Europa. Roma ed altre città furono risparmiate per un accordo preso tra il comandante delle divisioni tedesche e il Papa Pacelli, Pio XII. Questa notizia, ammesso che fosse vera, fu per noi un vero sollievo. Camminavamo tranquilli e io conversavo con i soldati più giovani che seguivano gli infermieri e il medico. Avevamo quasi fatto amicizia, grazie al fatto che parlavamo la loro lingua. E questa amicizia fu la nostra salvezza. Ad un tratto al bivio tra l’Ardeatina e la via della Annunziatella, dove c’era una masseria ed un casale, arrivò un mezzo blindato dal quale scesero dei tedeschi delle SS armati. Volevano ucciderci ma il medico ed altri soldati si misero tra noi e le SS che, con le armi in pugno erano già pronte a fare fuoco su di noi. Sopraggiunsero altri soldati. La situazione era difficile. Mio padre era pallidissimo. Anche il comandante si era irrigidito e i soldati del medico puntarono le armi contro le SS. Anche i soldati appena arrivati si schierarono a favore del medico in nostra difesa. A malincuore le SS si allontanarono e entrarono nella masseria dove sfogarono la loro rabbia. Si sentivano colpi di mitraglia. Era più che evidente: stavano distruggendo tutto quanto era loro possibile. Anche questa volta avevamo corso un grave pericolo ma il cielo ci proteggeva. Arrivammo nei pressi della nostra abitazione, prendemmo i sacchi e ringraziammo i nostri salvatori. Forse io non mi resi conto del reale pericolo che avevamo corso. Fortunatamente la vita continuava. Con la farina facemmo subito delle focacce ed anche delle fettuccine, non all'uovo ma all'acqua. Il giorno dopo io e mio padre tornammo presso il casale della farina ma non trovammo nulla. Il ragazzo tedesco che era stato lasciato nella buca per una estrema difesa aveva colpito due auto blindate ed un carro armato ma era stato accerchiato e ucciso. Una delle sue mani usciva da un mucchio di pietre. Forse, all’ultimo momento, sarebbe volentieri fuggito, ma non fece in tempo. Due o tre giorni dopo, il 4 giugno, arrivarono gli americani e subito molti italiani più o meno giovani, con i fazzoletti rossi legati al collo, li salutavano per la strada e dalle finestre. Gli americani, acclamati come liberatori gettavano alla folla sigarette, cioccolate, biscotti e quant'altro potesse alleviare la fame della gente. Molti, che credevamo americani, erano italiani arruolati dalle forze alleate per continuare a combattere la guerra di liberazione. Ad un tratto alcuni tedeschi che si erano arresi comparvero dietro agli americani. La folla reagì con rabbia e prese ad imprecare contro di loro e li avrebbe linciati, se i soldati alleati non avessero difeso i loro prigionieri. Io, dopo il ritrovamento del ragazzo tedesco ucciso, non dormii per parecchie notti. La sua mano, che spuntava tra i sassi, fu un incubo che mi assillò per molto tempo. La guerra, come sempre inutile, assurda, continuò ancora per molti mesi e io, dopo più di sessant'anni, la sento ancora sulla mia pelle. |